Forse a Igor Ansoff, nel mio libro, faccio dire più del dovuto. Ma non voglio farmi prendere nella rete del management inteso come teoria autoreferenziale. Non mi interessa appoggiare le mie argomentazioni su fonti accademiche. Mi interessa esporre ciò che il mio sguardo mi porta a vedere. La bibliografia non aggiunge valore a ciò che dico.
Eppure, ho letto i libri. E non voglio eludere l'aspettativa di chi mi chiede di collocare il mio discorso nel quadro della letteratura manageriale.
Così, ripeto, ad Ansoff faccio dire forse più di quanto vorrebbe. Ma se lo è meritato, perché nessuno come lui, mi pare, ha parlato con chiarezza del tema che mi sta a cuore.
Nel 1963, in un internal memo redatto da studiosi dello Stanford Research Institute appare il termine stakeholder. “Those groups without whose support the organization would cease to exist”. Sul versante europeo si può ricordare il contemporaneo lavoro di Erik Rhenman presso l'Handelshögskolan i Stockholm (Stockholm School of Economics) e presso l'Università di Lund.
Mi pare irrilevante, ed anzi fuorviante la formula astratta coniata da Rhenman: 'democrazia industriale'. Sto ai fatti che Rhenman e gli studiosi di Stanford rilevano con chiarezza: persone diverse dipendono dall’azienda per quanto riguarda i propri obiettivi personali; da queste persone, e quindi dalla concreta attenzione ai loro interessi, dipende l’esistenza dell’azienda. Una circolarità virtuosa lega il tener conto degli interessi degli attori ed il guardare all'interesse dell'azienda. L'una cosa dipende dall'altra.
Ma ecco entrare in scena Ansoff, russo-americano, formazione matematica, manager e poi tra i primi teorici del management. Corporate Strategy è la descrizione di una “metodologia pratica”, facilmente accessibile, “per l’assunzione di decisioni strategiche”.(Igor Ansoff, Corporate Strategy: An Analityc Approach to Business Policy for Growth and Expansion, McGraw-Hill, New York, 1965; trad. it. Strategia aziendale, Etas Libri, Milano, 1968). Un testo base, dal mio punto di vista, della teoria manageriale non ripiegata su se stessa, ma rivolta invece a mostrare il cammino ai manager.
Ansoff prende atto dell'esistenza degli stakeholder, portatore ognuno di un proprio interesse, ognuno necessario. Ma subito precisa: un conto sono gli obiettivi economici dell'impresa, un conto la sua responsabilità sociale. Detto fuori dai denti: gli stakeholder non sono tutti uguali. In ogni caso uno stakeholder, chi ha investito denaro nell'azienda, lo shareholder, conta più degli altri. Il suo interesse deve comunque essere considerato prevalente.
Qui ha origine, secondo me, il lungo viaggio che conduce il manager all'infausto traguardo, all'essere esecutore di comandi del mercato finanziario.
Senza l'attiva compresenza di stakeholder diversi, portatori ognuno di un proprio, diverso interesse, vengono meno le basi dell'autonoma azione manageriale. L'azionariato diffuso non porta in realtà nessuna libertà al manager: l'interesse degli azionisti non è che un'articolazione dell'interesse espresso complessivamente dal mercato finanziario.
Il manager trova ragione di esistere ed è libero- e quindi può decidere, incidere, agire- solo se ha molti 'padroni': gli investitori, sì, ma anche i lavoratori, i clienti, i fornitori, la comunità locale e nazionale. Solo se ha molti padroni non ha nessun padrone. Ed è quindi socialmente ed economicamente utile.
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