domenica 23 maggio 2010

Breve narrazione video

Contro il management è innanzitutto un libro. Se non fosse stato per l'editore, Angelo Guerini, che mi ha proposto di scrivere un libro, queste cose che avevo in mente, cose di cui avevo parlato oralmente, con amici e in situazioni diverse, cose che in forma sparsa in parte avevo già scritto, tutto questo non sarebbe stato alla portata dei lettori interessati.
Ma il libro, oggi, non vive nel nulla. Si inserisce in un panorama multimediale. Così potete avvicinarvi al tema, e decidere di leggere il libro, anche ascoltandomi narrare.

venerdì 21 maggio 2010

Se il mondo della politica vi pare brutto, dovreste vedere quello del management

Le conseguenze nefaste del management non possono non apparire evidenti, eppure il management gode di buona, di ottima fama.
Mentre cerco di spiegare il perché, mi risuona in mente il titolo di una famosa conferenza di Philip Dick: “Se vi pare che questo mondo si brutto, dovreste vederne qualche altro”.
Siamo indignati da certe degenerazioni della classe politica, che si trasforma in casta, siamo senza parole di fronte alle lungaggini e ai bizantinismo della burocrazia, cosicché finiamo per cercare soluzioni in un altrove.
Il management gode di buona stampa – senza che ci si renda conto che la buona stampa è dovuta agli interessi del mercato finanziario: la stampa economica ha tutto l'interesse a illustrare la figura dei suoi più fedeli e necessari servitori. Il management appare incontestabile manifestazione della modernità americana. La sua immagine è circonfusa dall'aura del successo: successo personale del manager, profitti garantiti dalla gestione dei manager, prospera vita in Borsa dei titoli garantiti da buoni manager. L'idea di un mercato liberista che tende verso l'autoregolazione, strettamente connessa al management, si traduce nella convinzione che l'azione del manager sia controllata e mantenuta in un ambito di correttezza dallo sguardo interessato della business community. Il management è illusoriamente letto, anche, come sinonimo di equa gestione. Il management, visto da lontano, appare una tecnica intrinsecamente fondata su un'etica laica, che se non garantisce la migliore gestione, garantisce almeno la lontananza dalle modalità di gestione più bieche, più retrive.
Niente di più falso e fuorviante. Il fatto è che il management gode del vantaggio di essere sconosciuto. Un miraggio lontano.
Qualsiasi giornalista o politologo sa, o crede di sapere, come funziona la politica. Le pagine di commento dei quotidiani sono perciò colme di acuminate critiche, quando non di saggi ammonimenti, rivolti a singoli ministri e statisti e leader di partito e a esponenti del sottobosco, oppure al sistema polito tutto, alla classe alla casta. Si bacchetta il cattivo di turno, il burattino che si conosce. Spesso, per sottolineare retoricamente le malefatte della politica, si sbandiera l'opposto modello dell'impresa, eticamente tesa verso 'i conti in nero', verso il profitto, verso l'interesse privato garanzia di interesse pubblico. E anche quando l'alternativa virtuosa non è ostentata, sempre questa aleggia dietro le parole.
Il punto che sfugge, o che si vuole occultare, è che giornalisti e politologi ed anche esimi professori, ed esimi ospiti di talk show televisivi, nulla sanno di come funzionano le cose all'interno delle aziende. Nulla sanno della pochezza culturale del management; nulla sanno, o vogliono sapere, della selezione al contrario, che premia i manager peggiori; non immaginano che un'azienda, nella mani del manager, è costretta a funzionare con il freno a mano tirato. Esperti e tuttologi nulla sanno, o si preoccupano di sapere. Non sanno che il management non guarda alle persone, non sa valorizzarle per quello che sono; considera inutile ascoltarle. Non sanno che la gestione manageriale non porge vera attenzione alle risorse che ha in pancia. Non sanno che spessissimo alla pubblica immagine così ben lustrata da esperti di comunicazione, corrisponde una pessima immagine agli occhi di chi in quella azienda lavora; non sanno che questa cattiva immagine interna è il più delle volte fondata su solidi motivi: il manager non è un leader, non ha carisma, non tiene conto di ciò che sappiamo fare, trascura potenzialità pure evidenti. Non sanno, questi esperti, che le aziende, che sulla carta dei giornali e nelle relazioni allegate ai bilanci appaiono come esemplari casi di efficienza e di ragion pratica, sono in realtà il regno di un'inconcepibile inefficienza, luoghi dove regna il disordine e l'ingiustizia. Non sanno che la tipica gestione consiste vivere il presente con lo sguardo fisso su pezzi di carta scritti in passato. Sopratutto non sanno, o non vogliono dire, che oggi l'azienda, nella mani del manager, è legata all'interesse esterno ma invadente della finanza, schiacciata sotto questo peso.
Eppure, nel mentre si mostra disinteresse per come funziona veramente l'azienda privata guidata da manager, si considera la virata verso il management sempre utile e conveniente. Ci si allontana da un brutto mondo che si conosce, e per questa vai si finisce malauguratamente per buttarsi nelle mani di manager che nulla aggiungono e molto tolgono.
Qui la politica va a braccetto con la finanza. Entrambe in fondo tendono a sfruttare l'azienda, tendono ad appropriarsi della ricchezza che l'azienda produce. La politica, per lo più vanamente, tenta di mettere le briglie alla finanza. La finanza sa che deve convivere con la politica. Ma finanza e politica colludono nel considerare le aziende vacche da mungere. E concordano nel considerare il management come porta di accesso.

mercoledì 12 maggio 2010

lunedì 10 maggio 2010

Presentazione alla Casa della Cultura, Milano 10 maggio 2010





Se il mondo della politica vi pare brutto, dovreste vedere quello del management

Lunedì 10 maggio 2010, ore 18
Casa della Cultura
Via Borgogna 3, Milano

presentazione del volume

Contro il management
La vanità del controllo, gli inganni della finanza
e la speranza di una costruzione comune

di Francesco Varanini

edito da Guerini e Associati

discutono con l’autore:

Gianluca Bocchi
Docente di Filosofia della Scienza, Università di Bergamo

Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura di Milano

Gianfranco Dioguardi
Docente di Economia e Organizzazione Aziendale, Politecnico di Bari


Trovate qui l'audio della presentazione

Introduzione

Sempre di lavoro si tratta
Ricordo il momento preciso in cui mi è venuto improvvisamente in mente, con chiarezza, un pensiero. Un pensiero che mi ha dato sollievo e che mi ha aperto la mente: gira e rigira, il manager, lo stesso Amministratore delegato o Chief Executive Officer che dir si voglia, non è che un lavoratore, un lavoratore come tutti gli altri. Con gli stessi diritti e gli stessi doveri.
L'oggetto interessante, il tema che merita riflessione, anche guardando a quello che fanno Amministratori Delegati e dirigenti in genere, è il lavoro in sé, o meglio ancora: la vita operosa, perché non c'è confine sensato tra momenti e fasi diversi della vita. Anche il confine tra 'lavoro' e 'tempo libero' è fallace e fuorviante. Come usano il loro tempo i manager? Di cosa si occupano in realtà? Perché appaiono differenti da ogni altro lavoratore?
Se guardo all'Amministratore Delegato, e ad ogni dirigente, come a 'un lavoratore qualsiasi', l'oggetto d'indagine mi si presenta in una luce ben diversa da come mi sarebbe apparso se avessi preso per buona letteratura del management, con le sue categorie e i suoi assunti.
Se guardo all'Amministratore Delegato, ed ad ogni dirigente, come lavoratori qualsiasi, cesso di dare per scontato un ruolo, una immagine consolidata, e posso tornare liberamente a chiedermi se e come il manager aggiunge valore. E sopratutto per chi lavora, al servizio di quali interessi.
Basta con il management. Basta con i riferimenti ai sacri testi di questa disciplina. Basta con l'isolare questo ambito di attività. Perché poi, quali sono i confini della disciplina?

Professori, dirigenti e semplici impiegati
Gli sguardi di umanisti e illuministi abbracciavano vasti territori, non c'era soluzione di continuità tra il micro e il macro, tra botanica e anatomia, astronomia e poesia. Poi nell'Ottocento e nel Novecento è progressivamente intervenuta in campo scientifico la specializzazione, fino a una parcellizzazione del lavoro di tipo taylorista. Accade così che i confini che segmentano oggi le scienze -ne ragionavo in questi giorni con un amico- appaiano del tutto arbitrari, convenzionali. Eppure sono intesi come inviolabili e quasi sacri, così come i confini che separano l'uno dall'altro gli stati nazionali moderni.
Più il management diviene disciplina matura, più pone attenzione alla definizione dei propri confini, a dispute tra scuole e correnti interne, a studi che si rifanno ad altri studi. Così, l'attenzione riconosciuta ad un testo dipende non da ciò che il testo dice, ma dai riferimenti a sacri testi, dall'esplicito Ossequio al Canone.
Se avessi fatto mio questo orientamento, avrei potuto, o dovuto, farcire il testo di citazioni tra parentesi di fonti bibliografiche. Avrei dovuto aggiungere note su note.
A smentire l'utilità di una simile pratica, ho sempre in mente le parole, una quindicina di anni fa, di un collega più autorevole di me, più esperto. Tornavamo da un viaggio di lavoro.In auto, ormai neni pressi di Milano, combattevamo il tedio parlando del più e del meno. Mi parlava dell'articolo che stava concludendo per la più nota rivista scientifica del settore. Mi diceva: scrivo a partire dalla mia esperienza. La bibliografia, perché ci vuole, poi si aggiunge alla fine: ormai ho una bibliografia standard pronta, libri e articoli sopratutto americani. La aggiorno via via. Dì lì, a cose fatte, estraggo la bibliografia per i miei articoli e i miei libri.
Scrivere a partire da ciò che si conosce, che si pensa di sapere, a partire da ciò che si osserva, e poi comunque aggiungere pretese fonti, per Ossequio al Canone. Che pratica insensata. Una pratica che allontana il testo da chi lo scrive e chi lo legge. Una pratica che, ben lungi dall'aggiungerne, sottrae conoscenza.
Così come vana mi pare la ricorrente tendenza a fondare teorie manageriali di volta in volta diverse, una volta su un approccio filosofico, una volta su un nuovo percorso di ricerca emerso nel campo delle scienze naturali, una volta prendendo spunto dall'epistemologia delle scienze naturali, dall'etnografia, una volta attingendo alla critica letteraria o alla psicanalisi.
Intendiamoci, spesso si tratta di roba buona, in origine. Ma roba che arriva allo studioso di management di terza mano: lo studioso -che non è un filosofo, né uno scienziato, né un etnografo, né un critico letterario, né un analista- si fonda su ciò che legge su manuale che già ha trasformato quella materia viva in tema di studio, in inerte materia accademica.
Anche questo approccio finisce per allontanare dal tema di cui si scrive. Anche qui Ossequio a un Canone, in questo caso altrui. Anche qui nessun valore aggiunto, e invece sottrazione di conoscenza.
Accumulare studi di buone pratiche manageriali mi pare utile forse a fini accademici, ma molto meno utile per il manager. Il manager che giorno dopo giorno si trova ad affrontare nuovi problemi, nuove situazioni, non so quanto possa essere confortato nella sua azione da ciò che successo o all'insuccesso di altri manager, in tempi passati ed in luoghi diversi.
Questo vizio inquina qualsiasi ricerca. Funge da alibi per allontanarsi, per non considerarsi parte in causa nell'indagine. Mentre credo che, sempre, l'osservatore faccia parte dell'oggetto d'indagine. Ogni ricerca parla della vita, fa parte della vita. Quale sia il tema della mia ricerca, sono in gioco persone in carne ed ossa, mente e corpo. Innanzitutto sono in gioco io stesso. La ricerca non può mai essere slegata dall'autobiografia.
Ma questo vizio consistente nel prendere le distanze tramite l'Ossequio al Canone inquina in modo speciale uno studio che vuole guardare all'azienda. Perché nell'azienda vivono persone che hanno molto da dire. Persone dolenti, scherzose, speranzose, che ogni giorno in quello che fanno 'ci mettono l'anima'.
Nel guardare a come funziona l'azienda e a come agisce chi la dirige, spero di riuscire a tener conto del loro sguardo e della loro parola.
In una grande azienda, nella hall, al tavolo della reception (uso queste parole inglesi con cautela: vorrei che percepiste come allontanano dalla concretezza, dal sano parla-come-mangi), sta seduto un uomo di bassa statura, pelato, con occhiali di tartaruga: sorveglia il passaggio, saluta educatamente, perlopiù resta silenzioso. Ma è cintura nera di karate, esperto di culture orientali. Tutte le volte che ho parlato con lui ho ascoltato parole di grande saggezza.
Spero di essere capace di scrivere a nome suo, a nome di tutti li lavoratori come lui - che sono tanti.
Ma per i manager di quell'azienda la sua voce non conta. Anzi, lui come persona non esiste.

In una bolla ovattata
Infinite volte mi sono ritrovato a dirmi che il management produce un effetto di irrealtà.
E' come stare chiusi dentro una bolla sospesa sopra l'organizzazione. La vita quotidiana dell'azienda, fatta azioni e di desideri e di sogni e di pratiche, di gioco e di incazzature, anche di lacrime di rabbia, di lì non si vede. A chi vive entro la bolla non giunge che una pallida eco, delle voci di chi vive e lavora non resta che un ronzio, un rumore di fondo.
Eppure nella quiete ovattata della bolla, così distante dalla vita dell'azienda, si decide della vita dell'azienda, e si studia il funzionamento dell'azienda.
Credo che ogni persona al lavoro sia chiamata a portare il proprio contributo, e credo anche che i margini di autonomia, gli spazi per fare che ognuno ha a disposizione, siano più ampi di quello che difensivamente ognuno pensa. Perciò, di fronte al funzionamento delle aziende, dobbiamo dire che la responsabilità è di tutti e di ognuno. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per cambiare le cose'. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per migliorare la mia situazione'.
Credo però anche che, se pure ogni lavoratore è portatore di responsabilità, chi dirige sia portatore di una responsabilità speciale, più alta e più complessiva.
Cerco di ragionare a proposito di questa responsabilità. Considero primo effetto negativo della cattiva gestione, considero primo danno prodotto dal management il fornire alibi a gli altri lavoratori. Comportandosi come si comporta, il manager permette che si dica: 'se loro si comportano così, io sto già facendo troppo'.
Troppe persone disposte a darsi da fare faticano a capire perché i manager sono così distanti. Troppi lavoratori faticano a capire in vista di quali obiettivi il manager realmente lavora. Troppi lavoratori finiscono per pensar male, e quindi per leggere nei comportamenti nel manager personali comodi e secondi fini, anche quando i personali comodi e i secondi fini non ci sono.
Il fatto è, purtroppo, che il personale comodo e il secondo fine sono prassi quotidiana. Non sto pensando ora agli eccessi: sto pensando alla norma, legittimata dal management canonico. Il manager cerca il personale comodo scegliendosi il 'padrone' a cui rispondere. Il fine di questo 'padrone', che spesso ha ben poco a che fare con l'azienda che il manager dirige, finisce per diventare l'unico fine realmente perseguito.


Questo libro
Eccomi qui quindi con questo libro.
Scrivendolo, ho avuto l'impressione di stare sulle montagne russe. Salire e scendere; di nuovo salire e scendere di nuovo.
Mi sono trovato a usare, anche mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.
Mi sono trovato a riflettere su questioni economiche e sociali e politiche e filosofiche di grande portata, e poi a dar voce alle chiacchiere di persone raccolte attorno alla macchinetta del caffè. Trovo che manchi una saldatura tra questi due mondi discorsivi -conoscenza 'scientifica' e conoscenza esperita nella pratica quotidiana- e considero questa una grave e pericolosa mancanza.
Mi sono trovato a mischiare politica economica, storia, sociologia, etnografia, letteratura, filosofia: forse è questo che il management, inteso come disciplina, dovrebbe saper tenere insieme. Ma è lungi dal riuscirci. Ho dovuto fare da solo.
Metto in gioco quello che ho provato lavorando in azienda come impiegato assunto con contratto a termine, come quadro, come dirigente. Metto in gioco quello che penso di aver capito quando per qualche mese ho fatto l'operaio. Metto in gioco il mio sguardo etnografico e la mia convinzione di essere un artista, uno scrittore.
Risalgo alle origini del management. Zola e lo stesso Svevo parlano della Borsa: l'attività speculativa, così radicalmente contrapposta all'attività produttiva che ha luogo in azienda. A partire dalla propria autobiografia Svevo parla del ruolo del ruolo del manager, un ruolo nuovo, proprio negli anni in cui la figura del manager inizia a stare al centro della scena, fuori dall'ombra del Padrone.
Di fronte alla crisi, Keynes guarda pragmaticamente al che fare. Berle Means, Burnham, Orwell guardano alle luci e alle ombre di una nuova figura sociale.
Il trionfo dei manager, notava tempestivamente Orwell, non poteva che portare a una società pianificata e centralizzata, fortemente divaricata tra un vertice: cupola di una aristocrazia del (preteso) talento, ed una base di lavoratori sempre più impotenti e succubi.
A Igor Ansoff, forse, faccio dire più del dovuto. Siccome non voglio farmi prendere nella rete dei guru del management, uso Ansoff come testimone e figura simbolica. Lo faccio parlare a nome di tutti. Tutti infatti, come lui, accettano che la figura a suo modo grandiosa che il manager era in origine finisca per immiserirsi: non più che l'esecutore di altrui strategie.
Preferisco dar credito a voci anomale: Kracauer alla fine degli Anni Venti, Dick al culmine degli Anni Sessanta. E ancora Svevo con il suo modo di essere attivo e presente, un modo imperfetto, e per questo efficace.

In poche parole
In poche parole, questa è la mia tesi.
I manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l'azienda un pollaio, un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato, oppure eccessivamente assoggettato a procedure. In realtà, in entrambi i casi, privo, o meglio, privato di vita. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe nel pollaio oggi è la finanza - che mediante la connivenza del manager, fa dell'azienda terreno di razzia.
Sostengo che il manager, affermatosi come figura sociale in grado di essere conciliatore di interessi diversi, ha finito per badare innanzitutto a proprio interesse, e in seconda battuta per essere l'ambasciatore della finanza all'interno dell'azienda; o peggio, la longa manus della finanza.
Spero che i manager che conosco siano arrivati a leggere fino a questo punto, perché ora mi rivolgo a loro.
So bene che dietro il conformarsi ad un ruolo, dietro l'apparenza, dietro il forse inevitabile conformarsi alle aspettative di ruolo, resta la persona, con i suoi valori, con la sua unicità, con la sua umana ricchezza. Non nego a nessuno questa ricchezza. Tanto meno a voi. Mi auguro perciò che non vi riconosciate nel manager che descrivo.
Credo che però siate d'accordo con me nel dire che c'è qualcosa che non va. Credo che in fondo condividiate la mia indignazione e il mio dispetto. Confido quindi che queste pagine stimolino ad una riflessione collettiva.
Non riesco -per mia fortuna- a liberarmi di un'inguaribile orientamento alla speranza. Perciò a una Pars Destruens segue una Pars Construens.
Penso ad una azienda come costruzione comune, dove i diversi portatori di interessi coinvolti nella vita dell'azienda: chi vi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale la pubblica amministrazione -gli stakeholder tutti, insomma- sappiano accettare la compresenza dei diversi interessi, e si mostrino disposti a cercare insieme una convergenza. Un luogo vero il quale possano ragionevolmente convergere di diversi sguardi.
Per andare in questa direzione c'è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare le astrazioni normative del management ed orientata a guidare, governare, curare: non è poi così difficile.

sabato 1 maggio 2010

Contro il management, in poche parole

Il manager appare sulla scena all’inizio degli anni Trenta. Tecnico puro, specializzato nella direzione di grandi organizzazioni, gli è affidato il compito di condurre l’economia fuori dalla crisi.
Oggi, in anni segnati da una nuova crisi, ritroviamoil manager ridotto a figura impotente e inutile. Anzi, dannosa. Non più baluardo dell’economia produttiva di fronte alle pretese della speculazione finanziaria, ma all’opposto rappresentante degli interessi della finanza all’interno delleaziende. Non più remunerato in funzione dei risultati produttivi dell’impresa, ma compensato invece in funzione dell’apprezzamento di un titolo da parte della Borsa.
Eppure il manager gode di credito. Anche perchéil ruolo è celebrato da una pseudo-scienza: il management. Guru, Business School, società di consulenza strategica ben poco spiegano di ci che in realtà accade – e anzi contribuiscono a nasconderlo.
Questo libro nasce dall’indignazione. Per lo spreco di risorse, per l’ipocrisia, per il cinismo. Aziende asservite all’interesse privato di chi dovrebbe essere al loro servizio. Il valore misurato con l’unico metro del denaro. Luoghi dove potrebbe sprigionarsi la creatività, dove potrebbe regnare il piacere legato al lavoro, trasformati in deserti affettivi, dove vigono abuso e sfruttamento.
Eppure è possibile immaginare l’azienda come una costruzione comune, dove i diversi portatoridi interessi – chi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale, la pubblica amministrazione: gli stakeholder, insomma – sappiano accettare la compresenza dei diversi punti di vista.
Per andare in questa direzione c’è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare astrazioni normative e orientata, invece, a guidare, governare, curare.
La tesi del libro, dunque, si riassume in poche parole: i manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l’azienda in un pollaio. Un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato. Oppure totalmente assoggettato a procedure: tutti polli in batteria, privati della possibilità di essere se stessi. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe oggi è la finanza – che, mediante la connivenza del manager, fa dell’azienda terreno di razzia.

L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo

Ho scritto per non arrendermi, per reagire, per elaborare dispetto e delusione. Ho scritto a nome a tutti coloro che, ormai vicini alla rassegnazione, osservano la degenerazione delle aziende in cui lavorano. Ho scritto nella speranza di rendere evidente agli occhi dei manager la vanità della loro fatica: gli aspetti illusori del budget, l'accanimento carrieristico, il tempo speso inutilmente la sera in ufficio, il decisionismo che nasconde l'atteggiamento succube nei confronti di ciò che vuole la finanza.
Ma forse più di tante parole basta qualche verso. Nel corso degli anni, spesso mi sono trovato a esprimere in poesia ciò che non riuscivo a dire altrimenti.
Lascio alla fine L'irresistibile ascesa, versi distillati dal dolore e dalla rabbia. (Poesia scritta nella prima metà degli anni '90, già apparsa nella raccolta che ne riprendeva il titolo: L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, Guerini e Associati, 2003).
Sono passati tanti anni. Nella mia vicenda autobiografica, molte cose sono cambiate. Ma l'immagine del management che desumevo allora da accadimenti che mi avevano profondamente ferito, non è per nulla cambiata. Semmai posso dire che la situazione è degenerata. Per questo penso ci si avvicini a un punto di svolta. Al posto dei manager, persone disposte alla guida, al governo, alla cura.
(Nota: Posso anche essere più preciso, dicendo che questi versi sono ispirati da un manager, una persona precisa, che è stato per un certo periodo mio capo e 'Padrone').


L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo

Ho visto lampi d'ira contratta
dietro gli occhiali d'oro
di uomini marketing
assurti passo dopo passo
ai vertici aziendali

ho visto le loro mani curate
incapaci di stringere mani
e le loro dita serrate
fino al bianco delle nocche
attorno a penne Montblanc

li ho visti spiare il mondo
da dietro il vetro a specchio
dell'Istituto di Ricerche di Mercato
e poi chiedere lumi deferenti
al Guru e alla sua Mappa

li ho visti descrivere il nulla
in sede di briefing
impermeabili all'imbarazzo dell'account
perché col denaro si può comprare
tutto, anche le idee

li ho visti delusi dal sell-in
compulsare tabulati
ed esigere nuovi incroci di dati
perché i piani di marketing
non potevano essere sbagliati

li ho visti abbarbicarsi
per non commettere errori
alle strategie dei competitori
e prendere prodotti stranieri e dire
cosa ci vuole, lo facciamo anche noi

li ho visti ridurre la cultura aziendale
in polvere, in commodities senza sale
li ho sentiti vantarsi di avere sempre copiato
perché innovare è un rischio
che agevolmente può essere evitato

li ho visti sordi
alle accorate ragioni
dei vecchi aziendalisti
che dicevano guardi, mi creda,
questo davvero non si può fare

li ho visti questionare senza vergogna
di tecniche di produzione
imponendo a forza di grida
la propria ignoranza
come forma di potere

li ho visti convocare riunioni
solo per staffilare in faccia colpe
circostanze costruite ad arte per sentirsi
sopra agli altri, ridotti
a guardarsi in silenzio negli occhi

li ho sentiti magnificare
i collaboratori più protervi
o più deboli o più servi
e assumere ragazzi senza genio
ma figli di qualcuno

li ho visti in ufficio
chiusi già di prima mattina
lontani dal prodotto e dalla fabbrica
ma con il telefono in mano
e l'elenco di persone da cazziare

li ho visti agire
solo per non fermarsi a capire
li ho visti fare e disfare
pur di non fermarsi
mai a pensare

li ho uditi ragionare di stili di consumo
ma li ho visti spaesati
alla stazione del treno e nel metro
e sperduti nel traffico
in assenza dell'autista

li ho sentiti rammentare
il loro sogno infantile
essere un giorno
amministratore delegato
di qualcosa

e raccontare le loro domeniche bestiali
nelle loro case da architetto e senza libri
incapaci d'ozio e di piacere
rigidi in jeans ed in maglione
come nella giacca e cravatta da lavoro

costretti ancora da sé stessi
alla fatica vana
di vivere dietro gli occhiali d'oro
con disperata applicazione, il tempo
riga dopo riga dell'agenda.

Sette tipi di manager: Il Manager-cresciuto-in-casa

Di tutt'altra pasta sono fatti i Manager-cresciuti-in-casa. Mentre i Manager-come-si-deve sono entrati in azienda già con ruoli importanti, già inquadrati come dirigenti, o comunque proiettati verso luminosa carriera, i Manager-cresciuti-in-casa sono cresciuti passo passo, attraverso carriere lente ed accidentate, talvolta forniti da un buon titolo di studio, talvolta forti esclusivamente di un pratico 'saper fare' – ma sempre cresciuti partendo da posizioni impiegatizie e magari anche operaie. Hanno coperto il ruolo di quadri. Conoscono l'azienda a menadito, sia negli aspetti formali che informali. La loro competenza si fonda sull'esperienza. Conoscono bene le persone –interne ed esterne all'azienda– con le quali hanno a che fare. Considerano fondamentale la qualità dei rapporti personali. Conoscono bene materie prime e tecnologie e prodotti e cicli di produzione. Non sono necessariamente dotati di titoli di studio. Sono legati affettivamente all'azienda e al loro lavoro.
Triste realtà vuole che dietro ogni visibilissimo Manager-come-si-deve, operante sulla scena con tutta la sua arroganza ed ignoranza, agiscano, in ruoli più o meno subalterni, uno o più quasi invisibili Manager-cresciuti-in-casa. Il Manager-come-si-deve si prende onori e remunerazioni, ma non le corrispettive responsabilità, mentre il Manager-cresciuto-in-casa, grigio e concreto e fattivo, necessario e costruttivo, lavora e decide, ma resta nell'ombra. E' lasciato ad operare dietro le quinte.
L'affermazione e l'ascesa di Manager-cresciuti-in-casa ha normalmente luogo solo nelle aziende che premiano un lungo legame di fedeltà personale, aziende con una solida cultura aziendale, aziende quasi sempre dove la proprietà che mantiene saldamente la guida dell'impresa.
Legato ad un sincero interesse per quello che fa, mosso dal buon senso, orientato a considerare la produzione un dovere morale, , guidato da una propria etica, disinteressato ai riti che consolidano l'appartenenza alla casta dei Manager-come-si-deve, il Manager-cresciuto-in-casa non è controllabile, non è ricattabile, non può essere comprato. Non si assoggetta facilmente all'imperscrutabile comando esterno della finanza e degli stakeholder interessati esclusivamente ad estrarre ricchezza dall'economia produttiva, per destinarla altrove.

Sette tipi di manager: Il Cinico Umanista

Dopo ottimi studi scientifici, o più spesso umanistici, rinunciando a carriere universitarie o amministrative o politiche, ha scelto di fare il manager per caso, o per sfida, o magari inizialmente, per consapevole impegno sociale. Spesso inizia lavorando nell'area del Personale. Ma poi l'indubbia intelligenza apre la strada verso ogni ambito del management e verso ruoli di vertice.
E' una categoria rara e per questo pregiata. Se ci interessa davvero che l'impresa italiana ritrovi una sua strada, figure come queste servono come il pane. Potrebbero costituire la guida. Potrebbero fare scuola. Potrebbero costituire una punta di diamante, un'avanguardia. A chi se non a persone dotate di fini strumenti culturali e di solida formazione potrebbe, o dovrebbe essere affidato il compito di portare alla luce uno stile di direzione attento alla storia e alla cultura e all'economia reale del nostro paese.
Eppure, proprio da questo manager Umanisti ci giunge la maggiore delusione. Dove è maggiore l'aspettativa, dove maggiori sono le potenzialità, maggiore è il dispetto per la scarsità dell'apporto, per il prevalere del privatissimo e personale comodo.
In un mondo popolato da Manager-come-si-deve, dove gli scostamenti dalla norma si riassumono in Miracolati e Complici, il Manager Umanista ha vita facile. Brilla senza fatica. Le incontestabili doti gli permettono di sbrigare il lavoro in poco tempo. La maggiore acutezza dello sguardo – nel capire le persone, nel pensare al futuro, appare evidente.
Ma a partire da questi dati di realtà il manager Umanista se ne lava le mani. Invece di bonificare l'ambiente, invece di favorire l'ingresso di giovani di solida e aperta formazione– ama circondarsi di purissimi manager-come-si-deve. Lo fa col sorriso sardonico di chi ha capito come vanno le cose, e sceglie di approfittarne. Sceglie la via del cinismo.
Potrebbe, dovrebbe essere un maestro di etica, e ostenta invece sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali e le convenzioni. Critica a parole i manager-come si-deve, intimamente li disprezza, irride il loro accanito carrierismo, il loro stile convenzionale, la loro piattezza culturale, la povertà del loro lessico ma si mostra nella sostanza indulgente. Fa comodo e fa piacere avere sottomano un oggetto di scherno ed una conferma della propria superiorità.
Piace al Cinico Umanista brillare nel deserto. Piace al Cinico Umanista guardare innanzitutto a di sé stesso. Così la propria persona, le proprie qualità intellettuali, finiscono per essere il centro preminente del proprio interesse. Considerandosi unico e irripetibile, il Manager Umanista dà ad intendere di non poter avere eredi. Dopo la sua dipartita, ci dice tutto andrà peggio, mi rimpiangerete. E per confermare questa tesi –"Après moi le déluge"–, più o meno consapevolmente si bea nel pronosticare un futuro fosco.
Se il Manager-come-si-deve si vanta di non aver tempo per leggere, il Cinico Umanista ci dà ad intendere di leggere molto. E comunque scrive. Scrive parlando di sé, celebrando la propria diversità. Ma senza indignarsi né proporre qualcosa di nuovo. Offre semmai lezioni ai Manager-come-si-deve, fingendo di mostrare loro come farsi una cultura, ma in fondo giustificandone la pochezza.

Sette tipi di manager: Il lobbista-che-gioca-in-proprio

La sua carriera è anomala. Spesso è un ex Cocco-dell’analista, talvolta un Miracolato o un Complice. Più raramente un ex Manager-come-si deve. Non di rado proviene dalla consulenza, o professioni liberali, avvocato o commercialista; o da una Banca o dalla politica.
Non possiede quasi mai le skill che sulla carta –e secondo l’opinione di professori universitari, consulenti e coach– dovrebbero essere indispensabili al manager, pena l’incapacità di guidare un’azienda.
E questa circostanza dovrebbe farci riflettere: servono davvero al manager queste competenze ‘normali’? Il fatto che il Manager-come-si-deve le possegga, è prova della sua forza, o della sua debolezza? Non contano forse di più altre doti?
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio sa che in realtà, di quelle competenze ‘normali’ se ne può fare benissimo a meno.
E’ indispensabile, invece, il pelo sullo stomaco. E’ importante non fermarsi di fronte a nulla, non temere nessuno. In questo il Lobbista-che-gioca-in-proprio è maestro. Lo stesso Complice non può competere con lui. Non c’è gara.
Il Lobbista-che-gioca-in proprio trae il proprio potere dall’appartenere a un sistema di influenze incrociate, a una rete di interessi che si sostengono a vicenda – interessi che ovviamente nulla hanno a che fare con l’interesse dell’azienda nella quale momentaneamente il manager si trova a lavorare: anche sotto questo punto di vista, il Complice ha molto da imparare.
Nel Lobbista-che-gioca-in-proprio la generale tendenza di ogni manager –‘fai innanzitutto il tuo interesse personale’– raggiunge le massime vette. Lui gioca per sé, la sua è una partita personale. Sfortunata l’azienda che si trova a subire in sorte il transito di questi personaggi.
Amara la situazione di una azienda che finisce nelle mani del Lobbista-che-gioca-in proprio. L’azienda, nelle sue mani, non è che una pedina o una fiche, un asset sempre sacrificabile, sempre subordinato a diversi –e personali– interessi. Mentre gli interessi di un qualsiasi altro stakeholder, ovviamente, restano in secondo piano.
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio è dotato di un personale potere che rende forte nei confronti del mondo della finanza: è in grado di contrattare e di difendersi, perché è in grado di mettere in gioco altri poteri: la politica, le istituzioni. Il Lobbista-che-gioca-in-proprio decide da solo i propri compensi, ivi compreso, naturalmente, il ‘paracadute’: il compenso che spetta comunque al manager se, anche per propri errori, deve lasciare la posizione.
Camaleontico e potente, personaggio temuto e riverito, può spostare equilibri consolidati. Facile per lui giocare senza remore la carta che è già nelle mani di ogni Cocco-dell’analista, ma che il Cocco-dell’analista -privo dell’ambizione e dell’istinto del killer che contraddistingue il Lobbista-che gioca-in-proprio- è nella pratica restio a giocare: comprare, con il finanziamento del mercato finanziario, la stessa azienda per la quale lavora.

Sette tipi di manager: Il cocco dell’analista finanziario

L'analista finanziario studia e analizza l'azienda al fine di stabilirne lo stato di salute, definirne la struttura, la redditività e valutare le prospettive economiche. Gli indirizzi strategici, le scelte organizzative, investimenti e priorità, tutto dipende dalla voce dell’analista-oracolo.
Forse tutto nasce da una reciproca comprensione: meschino e ingrato il ruolo dell’analista: fare le pulci in casa altrui, decidere altrui destini in base a miseri e poveri, semplificanti indicatori; meschino e ingrato il ruolo del manager che deve chiedere all’analista il permesso per fare ciò che ritiene giusto fare in casa propria. Di qui, può darsi, la reciproca indulgenza. Di qui la disponibilità a tener conto dell’altrui punto di vista.
Forse tutto nasce dalla reale o apparente debolezza del manager – che l’analista pensa di far su come vuole. O forse è sta tutto nell’abilità del manager: apparire debole e accondiscendente. Forse tutto dipende da coincidenze, comuni hobby o vicinanze culturali.
Forse dipende al fatto che l’analista riconosce a quel manager il tocco magico: la capacità di uscire comunque dalle impasse, l’intuito o la fortuna o il coraggio.
Fatto sta che il-cocco-dell'analista è baciato dalla sorte. Va a genio all’analista, che è quindi disposto ad ascoltarlo. I bilanci ed i conti talvolta non parlano chiaro o non buttano bene. Ma il-cocco-dell’analista ha buon gioco, perché le sue ragioni e le sue dichiarazioni –anche se scarsamente documentate, anche se per nulla evidenti rispetto alle universali metriche della finanza– vengono prese in considerazione.
Il vantaggio competitivo di cui gode il Cocco-dell’analista rispetto ad ogni altro manager, sia una correttissimo Manager-come-si-deve, sia un Complice o un Miracolato, il vantaggio competitivo è enorme. Il Cocco-dell’analista può permettersi di sbagliare, e quindi di rischiare. Il Cocco-dell’analista può permettersi di andare oltre gli obiettivi che interessano immediatamente alla Finanza. Se la Finanza bada non solo alle chiusure trimestrali, ai bilanci e agli indicatori fondamentali, se la Finanza si fida del manager, il manager può tornare a svolgere il suo ruolo più pieno, può investire, può cercare lo sviluppo, può valorizzare nel tempo le risorse dell’azienda.
Triste dover osservare come il manager debba essere Cocco-dell’analista per agire con libertà.
Il Cocco-dell’analista vive però sul filo del rasoio: il tocco magico può essere perso, e gli analisti possono cambiare. Il successo può rapidamente trasformarsi in cattiva fama. La carriera è soggetta al volubile giudizio dell’analista, ma intanto, con un po’ di attenzione, può essere colto in momento di vacche grasse, e può essere sfruttata la buona fama.

Sette tipi di manager: Il Complice

I Manager-come-si-deve coprono i posti importanti perché ciò è loro dovuto, per diritto di casta. I Miracolati coprono posti importanti non si sa perché. Si sa benissimo invece perché coprono posti importanti i Complici: perché sono depositari di segreti indicibili. Perché hanno coperto, a tempo debito, errori clamorosi e appropriazioni indebite. Perché hanno svolto, almeno in una occasione, compiti rifiutati da ogni altro. Perché, senza bisogno di dirlo, sono disposti, per il presente ed il futuro, ad offrire i servizi più delicati e più preziosi.
Al servilismo che contraddistingue il Miracolato qui si accompagna la protervia. Un sottile ricatto è nascosto dietro ogni gesto del Complice. Il Complice sa con precisione di ogni cadavere nascosto in ogni armadio. In particolare, conosce molto bene i cadaveri nell'armadio del manager a cui risponde. E ancor meglio conosce le debolezze altrui. Non ne parla, non ha bisogno di parlarne. Ma non dimentica.
I Complici fanno valere nel silenzio il proprio potere. Il Complice è utilissimo, spesso indispensabile. Oppure capita di trovarsi Complici tra i piedi. In ogni caso del Complice non ci si può liberare – a meno che non ci si liberi del nostro personale orientamento alla complicità, al sotterfugio, al raggiro basato sulla menzogna.

Sette tipi di manager: Il Miracolato

Sognavano di essere Manager-come-si-deve, ma per situazioni economiche e sociali di partenza o per scarsi risultati scolastici o per accidenti della vita o per e per incapacità di salire su quel treno, non ci sono riusciti.
Ma poi, non per un colpo di reni, e forse nemmeno per una personale attitudine a cogliere l’attimo fuggente, e dunque magari solo per un colpo di fortuna, ce l’hanno fatta comunque.
Perché per una volta nella vita hanno avuto la fortuna di trovarsi al momento giusto al posto giusto. Passavano di lì, o erano nei paraggi, quando una posizione è rimasta improvvisamente scoperta. Serviva qualcuno per tamponare un buco, per riempire un vuoto.
Se Manager-come-si-deve si nasce, Miracolati si diventa. Qualcuno li ha presi per i capelli e li ha consapevolmente messi in un posto che pareva assolutamente al di sopra delle loro capacità, in base al principio che ciò che importa è circondarsi di persone che non possano fare ombra e che non rompano le scatole.
Affidare a quell’improbabile manager la posizione, appariva una soluzione facile, ma transitoria. Eppure quasi sempre i Miracolati durano nel tempo, perché la loro pochezza finisce per apparire virtù.
Il Miracolato garantisce un’affidabilità senza incrinature. Perché sa di non avere alternative. Il suo treno non passerà un’altra volta.
Così, eccolo attaccato alla sedia a ringraziare ogni giorno in cuor suo il fausto destino, le fortunate coincidenze che l’hanno portato a sedervisi. E seduto lì, culo di pietra, fedele al mandato, il Miracolato senza fiatare copre magagne e spala merda.
Ammantato del proprio grigiore, il Miracolato finisce per diventare indispensabile, inamovibile.

Sette tipi di manager: Il Manager-come-si-deve

Quelli che da piccoli dicevano ‘da grande farò l’amministratore delegato’, quelli che hanno fatto le università giuste e i master giusti. Quelli che al termine dell’università o del master hanno trovato subito posto. Quelli che da piccoli sono stati battezzati come talenti.
Quelli che ritengono che dirigere significhi ‘eseguire fedelmente’. E perciò si tengono lontani da ogni forma di pensiero creativo, evitano ogni tipo di innovazione. Per loro, la professionalità risiede nel mantenersi attaccati a procedure, routine, consuetudini. Per loro, la strategia è non occuparsi di strategia. E se per caso al di sopra di loro, o al loro fianco, opera un imprenditore o un qualche manager orientato a formulare strategie, il manager-come-si-deve si pregia di vanificare nella pratica i disegni, i progetti. Ogni intento innovativo, ogni spazio di creatività, nella mani del manager-come-si-deve è ridotto a banale ovvietà.
Quelli che, di fronte ad ogni scelta che potrebbe veramente cambiare le cose, ‘meglio aspettare un attimino’. Quelli che fanno della cautela la ragione di vita. Quelli che agiscono quando proprio non possono farne a meno, e che danno retta sempre e solo a chi fa la voce grossa.
Quelli che tirano tardi in ufficio, perché è a tarda ora che si fa il lavoro importante, che consiste nel tenere relazioni e tessere trame. Quelli che passano da un posto all’altro.
Quelli che ritengono corretto raccontare palle a chi sta sopra, al mercato, a dipendenti e collaboratori. Quelli che pensano che i risultati sono innanzitutto un problema di immagine e di comunicazione. E che perciò vivono fingendo, spacciando notizie fasulle ben impacchettate in slides Power Point o in documenti patinati. Quelli che hanno il gusto sottile di vedere soffrire gli altri, di punzecchiarli e tormentarli con parole o azioni che irritino o comunque mettano a disagio senza alcuna necessità e giustificazione.
Quelli che pensano non serva sapere nulla del business. Quelli che non hanno mai visitato la fabbrica e che non sanno nulla dei loro collaboratori, quelli che non conoscono e non guardano in faccia nessuno. Quelli che per loro esistono solo ‘i fondamentali’ e vedono il mondo attraverso la lente dei standard appresi: il mondo esiste solo per ciò che mostrano gli occhiali di finanza e controllo, marketing, operations...
Quelli che lavorano in grandi aziende, soliti nomi, o in primarie società di consulenza, soliti nomi, quelli che usano più parole inglesi che parole italiane, quelli che sono entrati giro e si ritrovano al circolo del golf, e frequentano insieme gli stessi luoghi di turismo estivo e invernale, quelli che vivono in case abitate solo da altri come loro, quelli che, naturalmente, hanno un macchinone o un SUV, quelli che hanno orologi, barche, quelli seguono tutto ciò che è di tendenza, pronti a diventare estimatori sinceri del rugby o del basket o della vela a seconda delle mode.
Quelli che magari dispongono solo di un’imitazione del posto importante e e della carriera fulminante e del SUV imponente e della casa elegante – ma si comportano come se fossero Chief Executive Officer di una multinazionale, totalmente identificati nel ruolo.
Quelli che sono sempre da un’altra parte, in viaggio o impegnati in importantissime conference call. Quelli che non hanno tempo di leggere neanche le riviste di settore. Quelli che parlano solo di donne e di sport. Quelli che si vestono con l’uniforme, giacca e cravatta o jeans è la stessa cosa, indumenti firmati per essere più uguali di ogni altro agli altri come loro.
Fatti con lo stampino, costituiscono l'esercito manageriale di riserva che piace agli stakeholder lontani ed interessati solo al controllo e alla normalizzazione: in una parola, piacciono agli analisti finanziari, agli investitori istituzionali, alla proprietà orami lontana dall'impresa.