Le conseguenze nefaste del management non possono non apparire evidenti, eppure il management gode di buona, di ottima fama.
Mentre cerco di spiegare il perché, mi risuona in mente il titolo di una famosa conferenza di Philip Dick: “Se vi pare che questo mondo si brutto, dovreste vederne qualche altro”.
Siamo indignati da certe degenerazioni della classe politica, che si trasforma in casta, siamo senza parole di fronte alle lungaggini e ai bizantinismo della burocrazia, cosicché finiamo per cercare soluzioni in un altrove.
Il management gode di buona stampa – senza che ci si renda conto che la buona stampa è dovuta agli interessi del mercato finanziario: la stampa economica ha tutto l'interesse a illustrare la figura dei suoi più fedeli e necessari servitori. Il management appare incontestabile manifestazione della modernità americana. La sua immagine è circonfusa dall'aura del successo: successo personale del manager, profitti garantiti dalla gestione dei manager, prospera vita in Borsa dei titoli garantiti da buoni manager. L'idea di un mercato liberista che tende verso l'autoregolazione, strettamente connessa al management, si traduce nella convinzione che l'azione del manager sia controllata e mantenuta in un ambito di correttezza dallo sguardo interessato della business community. Il management è illusoriamente letto, anche, come sinonimo di equa gestione. Il management, visto da lontano, appare una tecnica intrinsecamente fondata su un'etica laica, che se non garantisce la migliore gestione, garantisce almeno la lontananza dalle modalità di gestione più bieche, più retrive.
Niente di più falso e fuorviante. Il fatto è che il management gode del vantaggio di essere sconosciuto. Un miraggio lontano.
Qualsiasi giornalista o politologo sa, o crede di sapere, come funziona la politica. Le pagine di commento dei quotidiani sono perciò colme di acuminate critiche, quando non di saggi ammonimenti, rivolti a singoli ministri e statisti e leader di partito e a esponenti del sottobosco, oppure al sistema polito tutto, alla classe alla casta. Si bacchetta il cattivo di turno, il burattino che si conosce. Spesso, per sottolineare retoricamente le malefatte della politica, si sbandiera l'opposto modello dell'impresa, eticamente tesa verso 'i conti in nero', verso il profitto, verso l'interesse privato garanzia di interesse pubblico. E anche quando l'alternativa virtuosa non è ostentata, sempre questa aleggia dietro le parole.
Il punto che sfugge, o che si vuole occultare, è che giornalisti e politologi ed anche esimi professori, ed esimi ospiti di talk show televisivi, nulla sanno di come funzionano le cose all'interno delle aziende. Nulla sanno della pochezza culturale del management; nulla sanno, o vogliono sapere, della selezione al contrario, che premia i manager peggiori; non immaginano che un'azienda, nella mani del manager, è costretta a funzionare con il freno a mano tirato. Esperti e tuttologi nulla sanno, o si preoccupano di sapere. Non sanno che il management non guarda alle persone, non sa valorizzarle per quello che sono; considera inutile ascoltarle. Non sanno che la gestione manageriale non porge vera attenzione alle risorse che ha in pancia. Non sanno che spessissimo alla pubblica immagine così ben lustrata da esperti di comunicazione, corrisponde una pessima immagine agli occhi di chi in quella azienda lavora; non sanno che questa cattiva immagine interna è il più delle volte fondata su solidi motivi: il manager non è un leader, non ha carisma, non tiene conto di ciò che sappiamo fare, trascura potenzialità pure evidenti. Non sanno, questi esperti, che le aziende, che sulla carta dei giornali e nelle relazioni allegate ai bilanci appaiono come esemplari casi di efficienza e di ragion pratica, sono in realtà il regno di un'inconcepibile inefficienza, luoghi dove regna il disordine e l'ingiustizia. Non sanno che la tipica gestione consiste vivere il presente con lo sguardo fisso su pezzi di carta scritti in passato. Sopratutto non sanno, o non vogliono dire, che oggi l'azienda, nella mani del manager, è legata all'interesse esterno ma invadente della finanza, schiacciata sotto questo peso.
Eppure, nel mentre si mostra disinteresse per come funziona veramente l'azienda privata guidata da manager, si considera la virata verso il management sempre utile e conveniente. Ci si allontana da un brutto mondo che si conosce, e per questa vai si finisce malauguratamente per buttarsi nelle mani di manager che nulla aggiungono e molto tolgono.
Qui la politica va a braccetto con la finanza. Entrambe in fondo tendono a sfruttare l'azienda, tendono ad appropriarsi della ricchezza che l'azienda produce. La politica, per lo più vanamente, tenta di mettere le briglie alla finanza. La finanza sa che deve convivere con la politica. Ma finanza e politica colludono nel considerare le aziende vacche da mungere. E concordano nel considerare il management come porta di accesso.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento