lunedì 10 maggio 2010

Introduzione

Sempre di lavoro si tratta
Ricordo il momento preciso in cui mi è venuto improvvisamente in mente, con chiarezza, un pensiero. Un pensiero che mi ha dato sollievo e che mi ha aperto la mente: gira e rigira, il manager, lo stesso Amministratore delegato o Chief Executive Officer che dir si voglia, non è che un lavoratore, un lavoratore come tutti gli altri. Con gli stessi diritti e gli stessi doveri.
L'oggetto interessante, il tema che merita riflessione, anche guardando a quello che fanno Amministratori Delegati e dirigenti in genere, è il lavoro in sé, o meglio ancora: la vita operosa, perché non c'è confine sensato tra momenti e fasi diversi della vita. Anche il confine tra 'lavoro' e 'tempo libero' è fallace e fuorviante. Come usano il loro tempo i manager? Di cosa si occupano in realtà? Perché appaiono differenti da ogni altro lavoratore?
Se guardo all'Amministratore Delegato, e ad ogni dirigente, come a 'un lavoratore qualsiasi', l'oggetto d'indagine mi si presenta in una luce ben diversa da come mi sarebbe apparso se avessi preso per buona letteratura del management, con le sue categorie e i suoi assunti.
Se guardo all'Amministratore Delegato, ed ad ogni dirigente, come lavoratori qualsiasi, cesso di dare per scontato un ruolo, una immagine consolidata, e posso tornare liberamente a chiedermi se e come il manager aggiunge valore. E sopratutto per chi lavora, al servizio di quali interessi.
Basta con il management. Basta con i riferimenti ai sacri testi di questa disciplina. Basta con l'isolare questo ambito di attività. Perché poi, quali sono i confini della disciplina?

Professori, dirigenti e semplici impiegati
Gli sguardi di umanisti e illuministi abbracciavano vasti territori, non c'era soluzione di continuità tra il micro e il macro, tra botanica e anatomia, astronomia e poesia. Poi nell'Ottocento e nel Novecento è progressivamente intervenuta in campo scientifico la specializzazione, fino a una parcellizzazione del lavoro di tipo taylorista. Accade così che i confini che segmentano oggi le scienze -ne ragionavo in questi giorni con un amico- appaiano del tutto arbitrari, convenzionali. Eppure sono intesi come inviolabili e quasi sacri, così come i confini che separano l'uno dall'altro gli stati nazionali moderni.
Più il management diviene disciplina matura, più pone attenzione alla definizione dei propri confini, a dispute tra scuole e correnti interne, a studi che si rifanno ad altri studi. Così, l'attenzione riconosciuta ad un testo dipende non da ciò che il testo dice, ma dai riferimenti a sacri testi, dall'esplicito Ossequio al Canone.
Se avessi fatto mio questo orientamento, avrei potuto, o dovuto, farcire il testo di citazioni tra parentesi di fonti bibliografiche. Avrei dovuto aggiungere note su note.
A smentire l'utilità di una simile pratica, ho sempre in mente le parole, una quindicina di anni fa, di un collega più autorevole di me, più esperto. Tornavamo da un viaggio di lavoro.In auto, ormai neni pressi di Milano, combattevamo il tedio parlando del più e del meno. Mi parlava dell'articolo che stava concludendo per la più nota rivista scientifica del settore. Mi diceva: scrivo a partire dalla mia esperienza. La bibliografia, perché ci vuole, poi si aggiunge alla fine: ormai ho una bibliografia standard pronta, libri e articoli sopratutto americani. La aggiorno via via. Dì lì, a cose fatte, estraggo la bibliografia per i miei articoli e i miei libri.
Scrivere a partire da ciò che si conosce, che si pensa di sapere, a partire da ciò che si osserva, e poi comunque aggiungere pretese fonti, per Ossequio al Canone. Che pratica insensata. Una pratica che allontana il testo da chi lo scrive e chi lo legge. Una pratica che, ben lungi dall'aggiungerne, sottrae conoscenza.
Così come vana mi pare la ricorrente tendenza a fondare teorie manageriali di volta in volta diverse, una volta su un approccio filosofico, una volta su un nuovo percorso di ricerca emerso nel campo delle scienze naturali, una volta prendendo spunto dall'epistemologia delle scienze naturali, dall'etnografia, una volta attingendo alla critica letteraria o alla psicanalisi.
Intendiamoci, spesso si tratta di roba buona, in origine. Ma roba che arriva allo studioso di management di terza mano: lo studioso -che non è un filosofo, né uno scienziato, né un etnografo, né un critico letterario, né un analista- si fonda su ciò che legge su manuale che già ha trasformato quella materia viva in tema di studio, in inerte materia accademica.
Anche questo approccio finisce per allontanare dal tema di cui si scrive. Anche qui Ossequio a un Canone, in questo caso altrui. Anche qui nessun valore aggiunto, e invece sottrazione di conoscenza.
Accumulare studi di buone pratiche manageriali mi pare utile forse a fini accademici, ma molto meno utile per il manager. Il manager che giorno dopo giorno si trova ad affrontare nuovi problemi, nuove situazioni, non so quanto possa essere confortato nella sua azione da ciò che successo o all'insuccesso di altri manager, in tempi passati ed in luoghi diversi.
Questo vizio inquina qualsiasi ricerca. Funge da alibi per allontanarsi, per non considerarsi parte in causa nell'indagine. Mentre credo che, sempre, l'osservatore faccia parte dell'oggetto d'indagine. Ogni ricerca parla della vita, fa parte della vita. Quale sia il tema della mia ricerca, sono in gioco persone in carne ed ossa, mente e corpo. Innanzitutto sono in gioco io stesso. La ricerca non può mai essere slegata dall'autobiografia.
Ma questo vizio consistente nel prendere le distanze tramite l'Ossequio al Canone inquina in modo speciale uno studio che vuole guardare all'azienda. Perché nell'azienda vivono persone che hanno molto da dire. Persone dolenti, scherzose, speranzose, che ogni giorno in quello che fanno 'ci mettono l'anima'.
Nel guardare a come funziona l'azienda e a come agisce chi la dirige, spero di riuscire a tener conto del loro sguardo e della loro parola.
In una grande azienda, nella hall, al tavolo della reception (uso queste parole inglesi con cautela: vorrei che percepiste come allontanano dalla concretezza, dal sano parla-come-mangi), sta seduto un uomo di bassa statura, pelato, con occhiali di tartaruga: sorveglia il passaggio, saluta educatamente, perlopiù resta silenzioso. Ma è cintura nera di karate, esperto di culture orientali. Tutte le volte che ho parlato con lui ho ascoltato parole di grande saggezza.
Spero di essere capace di scrivere a nome suo, a nome di tutti li lavoratori come lui - che sono tanti.
Ma per i manager di quell'azienda la sua voce non conta. Anzi, lui come persona non esiste.

In una bolla ovattata
Infinite volte mi sono ritrovato a dirmi che il management produce un effetto di irrealtà.
E' come stare chiusi dentro una bolla sospesa sopra l'organizzazione. La vita quotidiana dell'azienda, fatta azioni e di desideri e di sogni e di pratiche, di gioco e di incazzature, anche di lacrime di rabbia, di lì non si vede. A chi vive entro la bolla non giunge che una pallida eco, delle voci di chi vive e lavora non resta che un ronzio, un rumore di fondo.
Eppure nella quiete ovattata della bolla, così distante dalla vita dell'azienda, si decide della vita dell'azienda, e si studia il funzionamento dell'azienda.
Credo che ogni persona al lavoro sia chiamata a portare il proprio contributo, e credo anche che i margini di autonomia, gli spazi per fare che ognuno ha a disposizione, siano più ampi di quello che difensivamente ognuno pensa. Perciò, di fronte al funzionamento delle aziende, dobbiamo dire che la responsabilità è di tutti e di ognuno. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per cambiare le cose'. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per migliorare la mia situazione'.
Credo però anche che, se pure ogni lavoratore è portatore di responsabilità, chi dirige sia portatore di una responsabilità speciale, più alta e più complessiva.
Cerco di ragionare a proposito di questa responsabilità. Considero primo effetto negativo della cattiva gestione, considero primo danno prodotto dal management il fornire alibi a gli altri lavoratori. Comportandosi come si comporta, il manager permette che si dica: 'se loro si comportano così, io sto già facendo troppo'.
Troppe persone disposte a darsi da fare faticano a capire perché i manager sono così distanti. Troppi lavoratori faticano a capire in vista di quali obiettivi il manager realmente lavora. Troppi lavoratori finiscono per pensar male, e quindi per leggere nei comportamenti nel manager personali comodi e secondi fini, anche quando i personali comodi e i secondi fini non ci sono.
Il fatto è, purtroppo, che il personale comodo e il secondo fine sono prassi quotidiana. Non sto pensando ora agli eccessi: sto pensando alla norma, legittimata dal management canonico. Il manager cerca il personale comodo scegliendosi il 'padrone' a cui rispondere. Il fine di questo 'padrone', che spesso ha ben poco a che fare con l'azienda che il manager dirige, finisce per diventare l'unico fine realmente perseguito.


Questo libro
Eccomi qui quindi con questo libro.
Scrivendolo, ho avuto l'impressione di stare sulle montagne russe. Salire e scendere; di nuovo salire e scendere di nuovo.
Mi sono trovato a usare, anche mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.
Mi sono trovato a riflettere su questioni economiche e sociali e politiche e filosofiche di grande portata, e poi a dar voce alle chiacchiere di persone raccolte attorno alla macchinetta del caffè. Trovo che manchi una saldatura tra questi due mondi discorsivi -conoscenza 'scientifica' e conoscenza esperita nella pratica quotidiana- e considero questa una grave e pericolosa mancanza.
Mi sono trovato a mischiare politica economica, storia, sociologia, etnografia, letteratura, filosofia: forse è questo che il management, inteso come disciplina, dovrebbe saper tenere insieme. Ma è lungi dal riuscirci. Ho dovuto fare da solo.
Metto in gioco quello che ho provato lavorando in azienda come impiegato assunto con contratto a termine, come quadro, come dirigente. Metto in gioco quello che penso di aver capito quando per qualche mese ho fatto l'operaio. Metto in gioco il mio sguardo etnografico e la mia convinzione di essere un artista, uno scrittore.
Risalgo alle origini del management. Zola e lo stesso Svevo parlano della Borsa: l'attività speculativa, così radicalmente contrapposta all'attività produttiva che ha luogo in azienda. A partire dalla propria autobiografia Svevo parla del ruolo del ruolo del manager, un ruolo nuovo, proprio negli anni in cui la figura del manager inizia a stare al centro della scena, fuori dall'ombra del Padrone.
Di fronte alla crisi, Keynes guarda pragmaticamente al che fare. Berle Means, Burnham, Orwell guardano alle luci e alle ombre di una nuova figura sociale.
Il trionfo dei manager, notava tempestivamente Orwell, non poteva che portare a una società pianificata e centralizzata, fortemente divaricata tra un vertice: cupola di una aristocrazia del (preteso) talento, ed una base di lavoratori sempre più impotenti e succubi.
A Igor Ansoff, forse, faccio dire più del dovuto. Siccome non voglio farmi prendere nella rete dei guru del management, uso Ansoff come testimone e figura simbolica. Lo faccio parlare a nome di tutti. Tutti infatti, come lui, accettano che la figura a suo modo grandiosa che il manager era in origine finisca per immiserirsi: non più che l'esecutore di altrui strategie.
Preferisco dar credito a voci anomale: Kracauer alla fine degli Anni Venti, Dick al culmine degli Anni Sessanta. E ancora Svevo con il suo modo di essere attivo e presente, un modo imperfetto, e per questo efficace.

In poche parole
In poche parole, questa è la mia tesi.
I manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l'azienda un pollaio, un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato, oppure eccessivamente assoggettato a procedure. In realtà, in entrambi i casi, privo, o meglio, privato di vita. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe nel pollaio oggi è la finanza - che mediante la connivenza del manager, fa dell'azienda terreno di razzia.
Sostengo che il manager, affermatosi come figura sociale in grado di essere conciliatore di interessi diversi, ha finito per badare innanzitutto a proprio interesse, e in seconda battuta per essere l'ambasciatore della finanza all'interno dell'azienda; o peggio, la longa manus della finanza.
Spero che i manager che conosco siano arrivati a leggere fino a questo punto, perché ora mi rivolgo a loro.
So bene che dietro il conformarsi ad un ruolo, dietro l'apparenza, dietro il forse inevitabile conformarsi alle aspettative di ruolo, resta la persona, con i suoi valori, con la sua unicità, con la sua umana ricchezza. Non nego a nessuno questa ricchezza. Tanto meno a voi. Mi auguro perciò che non vi riconosciate nel manager che descrivo.
Credo che però siate d'accordo con me nel dire che c'è qualcosa che non va. Credo che in fondo condividiate la mia indignazione e il mio dispetto. Confido quindi che queste pagine stimolino ad una riflessione collettiva.
Non riesco -per mia fortuna- a liberarmi di un'inguaribile orientamento alla speranza. Perciò a una Pars Destruens segue una Pars Construens.
Penso ad una azienda come costruzione comune, dove i diversi portatori di interessi coinvolti nella vita dell'azienda: chi vi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale la pubblica amministrazione -gli stakeholder tutti, insomma- sappiano accettare la compresenza dei diversi interessi, e si mostrino disposti a cercare insieme una convergenza. Un luogo vero il quale possano ragionevolmente convergere di diversi sguardi.
Per andare in questa direzione c'è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare le astrazioni normative del management ed orientata a guidare, governare, curare: non è poi così difficile.

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