domenica 26 settembre 2010

Adriano Olivetti, Sergio Marchionne, Kitarō Nishida: perché le automobili Fiat sono brutte

Il 22 settembre 2010 ho partecipato, a Parma, presso l'Unione Parmense degli Industriali, Palazzo Soragna, al convegno Il valore dell'etica e dell'estetica nell'agire d'impresa. Si tratta della seconda tappa del percorso Adriano Olivetti Uno organizzato, con l'associazione Vita Eudaimonica, da Alberto Peretti.
A seguito del più teorico intervento del filosofo Aldo Natoli -il problema dei filosofi che parlano di lavoro e di organizzazione e di azienda, è che non hanno mai vito da vicino una fabbrica, un'azienda-, ho parlato sul tema: Estetica e Globalizzazione. Luogh, non luoghi e scelte del management.
Leggo in un articolo di Antonella Del Gesso apparso sulla Gazzetta di Parma:

«Oggi c'è una totale lacerazione tra impresa e territorio», commenta filosofo Salvatore Natoli. «E' questo il principio su cui si basa la finanza: immaginare di poter produrre a prescindere dall’esistenza di un luogo fisico. E i risultati di questa politica si sono visti», aggiunge il consulente e formatore Francesco Varanini.

Non preparo mai come tesi finiti gli interventi a convegni, o le conferenze, perché preferisco scoprire il discorso che emerge nella situazione, in quel momento, in relazione con gli astanti e con ciò che dicono gli altri relatori.
In questo caso però mi è capitato di scrivere un testo compiuto sul tema che mi era stato assegnato. Mentre scrivevo, mi è apparso come titolo più adeguato Le automobili Fiat sono così brutte perché Marchonne guadagna troppo.
La ragione del titolo sta nel paragrafo che trascrivo qui sotto.

Anche i competitori globali della Fiat sono costretti ad operare su un mercato dominato dalla finanza. Ma evidentemente a loro la qualità e il valore dell'automobile, il bello e il buono interessano di più. Se non fosse così, non sarebbe così evidente la differenza tra un'automobile tedesca e un'automobile italiana.
Possiamo, a ragion veduta, dire che, da un punto di vista etico, Marchionne guadagna troppo, visto le brutte automobili che la Fiat produce. Ma possiamo, a maggior motivo, dire che la Fiat fa brutte automobili perché Marchionne guadagna troppo.
Quando c'era Valletta le automobili della Fiat erano più belle, più ricche di valore percepito da lavoratori e da clienti. Valletta guadagnava venti volte più di un operaio della Fiat. Non era troppo lontano. Riusciva a capire, gli interessava capire, come pensa e come vive un operaio. Dedicava tempo all'organizzazione del lavoro, della produzione. La sua retribuzione dipendeva dal consenso dei sindacati, era dunque consapevolmente pagato anche dagli operai. E al contempo era pagato da chi comprava automobili Fiat. Considerava importante l'opinione dei clienti, degli automobilisti.
Marchionne guadagna quattrocento volte quanto guadagna un operaio. E' troppo lontano da operai e clienti. Non ha tempo per loro. Non gli interessa capire come pensa e come vive un operaio, né come coltivare e portare a valore le conoscenze dell'operaio. Dedica tempo innanzitutto agli investitori finanziari. Il suo scopo non è, in realtà, vendere o produrre automobili. Il suo scopo è rispondere alle aspettative del mercato finanziario. E' pagato non da operai e da clienti, ma da rentier -famiglia Agnelli, investitori di borsa, banche, operatori del mercato finanziario: banche, società di rating- in fondo come lui disinteressati alle automobili.
Agli investitori finanziari, ai percettori di reddito legato al valore di borsa -tra cui sta anche la famiglia Agnelli, e sta lo stesso Marchionne- importa ben poco dove sono prodotte le automobili, importa ben poco come sono prodotte le automobili. Importa ben poco produrre automobili che siano giudicate buone dai clienti. Importa solo che, con artifici contabilità o di comunicazione, il titolo faccia bella figura in borsa.
Il fatto che la Fiat di Marchionne produca automobili non è che un accidente, una infausta coincidenza. Si potrebbe anzi dire che Marchionne ha motivo di disprezzare per le automobili. Ha motivo di essere indispettito perché il comparto produttivo automotive è meno redditizio dal punto di vista finanziario di altri comparti, come elettronica, o energia.

Ho pubblicato questo testo nella sua versione completa qui. Partendo da Adriano Olivetti e dal suo ritener importante il luogo di produzione, si arriva, dal mio punto di vista al concetto di basho del filosofo giapponese Kitarō Nishida.
Ci appare evidente che Nishida ci fa apparire grossolano e ipocrita l'ideologia marchionnesca.
Basho: dove, ubicazione, posto, topos, terra, focolare, base materiale e allo stesso tempo spirituale. Non radici alle quali siamo vincolati, ma luogo che abitiamo.
Non ci può essere produzione, non ci può essere etica ed estetica, non c'è bello, né bene, né buono se non c'è basho.
L'esperienza che in ogni istante stiamo vivendo si situa in un qui. Solo se c'è basho c'è impresa e organizzazione che le persone possono intendere come dotata di senso.

martedì 21 settembre 2010

'Sviluppo & Organizzazione' e gli Studi critici sul management

"I critical studies di management si danno un ordine più sistematico; mentre vi è anche chi, come Francesco Varanini, si esprime in modo più radicale e polemico 'Contro il management". Così scrive Gianfranco Rebora nell'Editoriale che apre il numero 238 (maggio-giugno 2010) di Sviluppo & Organizzazione.
Non c'è da nascondersi dietro un dito, sono membro del Comitato Scientifico della rivista- che ora, con qualche differenza rispetto al passato, per merito di Gianfranco mostra una particolare attenzione per la vita concreta delle imprese e delle organizzazioni. Perché gli studi di management che parlano solo di precendenti studi di management finiscono per essere utili magari per le carriere accademiche, ma irrilevanti per chi non viva nell'accademia.
Così, Gianfranco mi ha chiesto di scrivermi da solo una scheda sui temi trattati nel mio libro. La scheda appare, nel suddetto numero di Sviluppo & Organizzazione, a p. 88, nel quadro di una rassegna bibliografica dedicata agli Studi critici sl management, a cura di Eliana Minelli.

martedì 7 settembre 2010

I manager del disastro

Questa recensione di Giulia Giuliani è apparsa nel numero di agosto 2010 di Mondoperaio, storica rivista di area socialista. Spero che Luigi Covatta, Gennaro Acquaviva, Giovanni Bechelloni e tutti gli altri che conducono attualmente la rivista, si riconoscano ancora nella definizione 'area socialista', e non solo nel sottotitolo 'rivista fondata da Pietro Nenni. Il tempi cambiano, e anche le persone, ma mi pare ci sia in giro una tendenza a rimuovere, piuttosto che a ragionare su passato e presente.
La recensione mi pare proprio ben fatta. Apprezzo l'inizio, autobiografico. "Un'amica di ritorno dalle ferie trascorse in Sardegna proprio in questi giorni mi racconta la delusione provata nel venire a sapere che un maestoso vigneto con la sua storica e suggestiva cantina, che era andata a visitare, sono passati dalle mani degli originari proprietari isolani a un rinomato marchio a livello internazionale di bibite e di aperitivi. In luogo dell'impresa a prevalente conduzione familiare, con un forte radicamento alla terra e alle tradizioni del luogo. la gestione è oggi così affidata ad un'imponente azienda che possiede insediamenti produttivi dislocati in diverse parti del mondo".
Restare legati a ciò che ci dicono amiche e amici è un buon antidoto, forse una pratica indispensabile, se non vogliamo soccombere alle informazioni che ci propina normalmente la stampa, informazioni legate a interessi di lobby e spesso così lontane dalla realtà.
Le ragioni di una famiglia che sceglie di cedere l'impresa sono evidenti e comprensibili. Non si tratta di essere sempre e comunque contro le ragioni della finanza, contro la globalizzazione e l'internazionalizzazione. Si tratta, credo, però, di mantener viva la nostra capacità di pensare in modo 'controfattuale'. Siamo veramente sicuri che la resa a un certo modello economico dominato dalla finanza è inevitabile? C'è qualcuno che ha saputo e voluto continuare con l'impresa a conduzione familiare. E possiamo creare un contesto perché questa scelta risulti meno difficile.

Gli inganni della finanza

Questa recensione di Fabio Ranucci è apparsa il 4 settembre 2010 su Conquiste del lavoro, quotidiano della CISL.
La rassegna del mio testo la trovo precisissima ed efficace.
Mi piacerebbe però che a partire dalle cose che scrivo -che non sono del resto che un riflesso di ragionamenti condivisi da molti- si innescasse una riflessione su come il sindacato si impegna realmente nel promuovere un coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione d'impresa.
Scrivo nel libro, nel paragrafo Stakeholder, svegliatevi:
"Vorrei per esempio vedere un sindacato che va oltre la difesa rituale di interessi costituiti, che va oltre la definizione di quadri normativi. Vorrei vedere un sindacato non più solo contropotere, ma invece potere: impegnato nella direzione aziendale, capace di imporre proprie metriche per misurare i risultati e di imporre criteri di ripartizione degli utili. Non ditemi che non si può fare. Prima che il sindacato si affermasse, chi aveva interessi da difendere aveva buon gioco a sostenere che nel panorama sociopolitico non ci sarebbe mai stato spazio per il sindacato."