sabato 26 giugno 2010

Riflessioni per un manager del futuro. Una conversazione con Francesco Varanini

Ritengo molto interessante questa intervista curata da Fabio Viola, apparsa su On the Move, sezione 'web 2.0' del sito Autogrill.
Certo, direte, il solito narcisismo dell'autore. Ma ripeto, credo che l'intervista sia interessante, e che l'interesse più che alle risposte sia dovuto alle domande - poste con passione e autonomia. A me l'androginous management, definizione sintetica e pertinente di un possibile management del futuro, non sarebbe venuto in mente.

Cito qui solo un brano:

Fabio Viola: Ci sono linee di mutamento che potrebbero ridefinire la figura del manager, inteso come figura capace di guardare in avanti? In tutto il libro lei evidenzia che il manager che abbiamo conosciuto fino ad adesso elabora le sua strategie sulla base di dati e modelli ancorati al passato, non ha quella finestra aperta sull’ignoto che il manager del futuro per lei dovrebbe avere. I requisiti fondamentali per chi dovrà gestire le aziende rete, interconnesse, ubique e impermanenti del futuro, lei dice, sono molteplici, non standardizzabili e centrati sul valore della differenza; basati su un orientamento alla complessità e sull’assunzione di un ruolo di guida, governo e di cura. Ho notato una forte assonanza con quanto dicono i gender studies riguardo agli stili dirigenziali femminili. Il manager del futuro è una donna o dovrà comunque femminilizzarsi, possedere quell’attitudine alle relazioni, ai legami e alla cura e alla responsabilità, attitudine che è socialmente percepita come femminile?

Francesco Varanini: Sì, qui sicuramente siamo di fronte ad una situazione paradossale. Diciamo anche che questa è una grande differenza rispetto agli anni ’30. Negli anni 30 c’erano molte meno donne nel mercato del lavoro, quindi nel bene e nel male era tutto un discorso interno al genere maschile. Con gravi conseguenze negative perché la differenza è fonte di ricchezza.
Ma oggi, quando la metà della forza lavoro, delle popolazione attiva nel mondo del lavoro sono donne, beh... il punto di vista di questa metà sull'organizzazione del lavoro, sul modo fare impresa e di stare in azienda non sappiamo neanche quale è... Sappiamo in ogni caso che è un pensiero diverso da quello di un uomo, e che non è valorizzato.
La stessa complessità che viviamo ci impedisce di sapere prima, in anticipo, quelle che saranno le soluzioni ai problemi che si presentano. Dobbiamo quindi metterci nelle condizioni di scoprire le soluzioni istante dopo istante, affrontando le situazioni che emergono. Il modo di governare del futuro presumibilmente questo. governare.
Eppure restiamo ancorati a questo management maschile, il che vuol dire sprecare la metà delle possibili soluzioni … Non ascoltare la metà delle persone in grado di proporre delle possibili soluzioni di fronte al problema è un gravissimo errore.
Quindi sicuramente la figura che sostituirà il manager nel futuro è sia maschile che femminile, con un momento maschile e un momento femminile e quindi… si va verso un discorso di contaminazione e di multiculturalità.
In questo senso rischia di diventare un limite un discorso legato alla fase di passaggio, nella quale la donna cerca spazi in modelli organizzativi e in modelli di management segnati dall'impronta maschile. E' un passaggio forse necessario, ma che non valorizza la differenza. La differenza si vedrà solo in un management del futuro, che appunto non è né maschile né femminile, un management capace di mischiare tutto un po’, attento alle situazioni emergenti, un management contaminato, meticciato…

F: Un androginous management?

V: Sì.

F: Che fa dell’ibridazione la sua pratica?

V: Sì… proprio! Poi credo che più si va avanti più si vede che il manager è una pratica che ha sempre meno senso teorizzare, perché quest’idea del controllo fondato su un piano fatto prima, questa idea di pianificazione e di programmazione, di fronte a situazioni sempre più incerte, sempre più difficili da leggere unilinearmente, è sempre più fallace.
Perciò il controllo cambia di senso, controllo sì, ma rispetto agli obiettivi che ti dai , rispetto allo scopo… “Dove sono arrivato ? cosa sto facendo per raggiungere lo scopo?” L'aver speso prima tanto tempo nel fare piani è solo una rassicurazione… per qualcuno.

F: Una rassicurazione che dispensa dal confrontarsi con la concretezza del presente…

V: Sì, appunto.

Questi capi sono da bocciare

Questa recensione è apparsa su Panorama Economy, 30 giugno 2010. Dopo averla letta, il mio editore mi ha scritto "non mi aspettavo tu fossi così esplicito sui nomi". Non credo di essere stato poi tanto esplicito, e credo che chiunque, leggendo il libro, ma anche solo le descrizioni dei 'sette tipi di manager'così come le sintetizzo in questo blog (vedi i post dedicati ad ognuno dei tipi), o anche solo leggendo la breve descrizione dei tipi presentata sulle pagine della rivista, credo che in ogni caso ognuno di voi sarà in grado di indicare diversi manager corrispondenti al ognuno dei tipi.
A proposito della recensione, devo aggiungere una cosa: avevo dato alla redazione, come richiesto, alcune mie foto recenti. Ma hanno preferito usare un mia foto di dieci anni fa. Scattata quando uscì Romanzi per i manager. (Su Romanzi per i manager, e i due libri della stessa serie che ne costituiscono il seguito, vedete sul blog Il principe di Condé).
Se proprio volete vedere foto più recenti, guardate qui.

domenica 13 giugno 2010

La teoria degli stakeholder e la rilettura negativa di Ansoff

Forse a Igor Ansoff, nel mio libro, faccio dire più del dovuto. Ma non voglio farmi prendere nella rete del management inteso come teoria autoreferenziale. Non mi interessa appoggiare le mie argomentazioni su fonti accademiche. Mi interessa esporre ciò che il mio sguardo mi porta a vedere. La bibliografia non aggiunge valore a ciò che dico.
Eppure, ho letto i libri. E non voglio eludere l'aspettativa di chi mi chiede di collocare il mio discorso nel quadro della letteratura manageriale.
Così, ripeto, ad Ansoff faccio dire forse più di quanto vorrebbe. Ma se lo è meritato, perché nessuno come lui, mi pare, ha parlato con chiarezza del tema che mi sta a cuore.
Nel 1963, in un internal memo redatto da studiosi dello Stanford Research Institute appare il termine stakeholder. “Those groups without whose support the organization would cease to exist”. Sul versante europeo si può ricordare il contemporaneo lavoro di Erik Rhenman presso l'Handelshögskolan i Stockholm (Stockholm School of Economics) e presso l'Università di Lund.
Mi pare irrilevante, ed anzi fuorviante la formula astratta coniata da Rhenman: 'democrazia industriale'. Sto ai fatti che Rhenman e gli studiosi di Stanford rilevano con chiarezza: persone diverse dipendono dall’azienda per quanto riguarda i propri obiettivi personali; da queste persone, e quindi dalla concreta attenzione ai loro interessi, dipende l’esistenza dell’azienda. Una circolarità virtuosa lega il tener conto degli interessi degli attori ed il guardare all'interesse dell'azienda. L'una cosa dipende dall'altra.
Ma ecco entrare in scena Ansoff, russo-americano, formazione matematica, manager e poi tra i primi teorici del management. Corporate Strategy è la descrizione di una “metodologia pratica”, facilmente accessibile, “per l’assunzione di decisioni strategiche”.(Igor Ansoff, Corporate Strategy: An Analityc Approach to Business Policy for Growth and Expansion, McGraw-Hill, New York, 1965; trad. it. Strategia aziendale, Etas Libri, Milano, 1968). Un testo base, dal mio punto di vista, della teoria manageriale non ripiegata su se stessa, ma rivolta invece a mostrare il cammino ai manager.
Ansoff prende atto dell'esistenza degli stakeholder, portatore ognuno di un proprio interesse, ognuno necessario. Ma subito precisa: un conto sono gli obiettivi economici dell'impresa, un conto la sua responsabilità sociale. Detto fuori dai denti: gli stakeholder non sono tutti uguali. In ogni caso uno stakeholder, chi ha investito denaro nell'azienda, lo shareholder, conta più degli altri. Il suo interesse deve comunque essere considerato prevalente.
Qui ha origine, secondo me, il lungo viaggio che conduce il manager all'infausto traguardo, all'essere esecutore di comandi del mercato finanziario.
Senza l'attiva compresenza di stakeholder diversi, portatori ognuno di un proprio, diverso interesse, vengono meno le basi dell'autonoma azione manageriale. L'azionariato diffuso non porta in realtà nessuna libertà al manager: l'interesse degli azionisti non è che un'articolazione dell'interesse espresso complessivamente dal mercato finanziario.
Il manager trova ragione di esistere ed è libero- e quindi può decidere, incidere, agire- solo se ha molti 'padroni': gli investitori, sì, ma anche i lavoratori, i clienti, i fornitori, la comunità locale e nazionale. Solo se ha molti padroni non ha nessun padrone. Ed è quindi socialmente ed economicamente utile.