domenica 18 luglio 2010

Etica e strumenti

Lo scritto che segue era apparso (come commento a: Mario Viviani, “Il bilancio sociale negli enti locali”), su Sviluppo & Organizzazione, n. 204, luglio/agosto 2004, p. 94.
Avevo quasi dimenticato di avere scritto queste pagine. Che avrebbero potuto anche entrare nel testo di Contro il management. E che comunque ne costituiscono una significativa anticipazione – in particolare per alcuni dei temi trattati: la compresenza dei diversi stakeholder, l'etica degli affari (o business ethics che dir si voglia), la Corporate Social Responsibility, la centralità e i limiti delle rilevazioni contabili e bilancistiche, le metriche e gli asset intangibili.
Sono passati sei anni. Mi ritrovo in quello che ho scritto, salvo su un punto. In conclusione critico Bilanci Sociali, Carte dei valori, e in genere tutte le nuove metriche, oggi tanto di moda, tese a descrivere la qualità etica dell'impresa. Affermo quindi che è meglio restare sul concreto e lavorare intanto per rendere più trasparenti e completi i tradizionali 'bilanci d'esercizio' fondati sulla rilevazione contabile.
Confermo la critica di nuovi strumento e nuove metriche. Ma sono diventato più scettico e guardingo al riguardo del bilancio d'esercizio. Come scrivo in Contro il management: il bilancio, lungi dall'incamminarsi verso l'esssere uno strumento descrittivo rispettoso della complessa realtà dell'impresa, è lo strumento, direi quasi il grimaldello, attraverso il quale un solo stakeholder -la finanza nellesue diverse manifestazioni: banca, investitori istituzionali, borsa- subordina l'impresa al suo comando. Insomma: il bilancio potrebbe essere sì equanime, ma in realtà è redatto per dire dell'azienda solo ciò che la finanza vuol sentirsi dire.

Immaginate un edificio abbellito da accattivanti insegne sulla facciata e da bandiere sventolanti sul tetto. Immaginate che questo lussuoso apparato comunicativo sia ostentato come significativa miglioria. Eppure chi vive nell’edificio sa –o dovrebbe sapere– che le fondamenta sono poco solide, e che i sotterranei sono infestati da topi, e sono anche luogo di turpi commerci.
Comunicazione, sovrastruttura, operazione di immagine meramente descrittiva. Questo è, non di rado, il ‘bilancio sociale’, e nel complesso tutta l’impalcatura degli strumenti della Corporate Social Responsibility, CSR (o Responsabilità sociale d’impresa, RSI).
Perché se ne parla tanto, e vi si investono risorse, distogliendole dalla gestione e da azioni orientate al cambiamento, al miglioramento, allo sviluppo? Tutto nasce dal bisogno, diremmo addirittura dalla fame di etica.
La morale non è, in origine, necessaria. E’ del tutto fondato lo scetticismo di chi si domanda ‘perché devo essere morale se l’immoralità consente ad altri di ottenere a buon mercato successo e felicità?’. Trasimaco nella Repubblica di Platone sostiene che l’ingiustizia è più utile della giustizia per chi ha la forza di imporsi agli altri, e che perciò non ha nessun obbligo di seguire le norme che gli impediscono di fare quello che vuole.
Ma la ‘morale’ viene di attualità quando diventa diffusa la percezione del superamento di un limite. Quando si percepisce come eccessiva la sperequazione, la disuguaglianza. Quando è vessata e violata la nostra personale dignità morale, o quella del gruppo cui apparteniamo, o quella di altri a cui riconosciamo la nostra stessa dignità. Quando l’uso della libertà da parte di pochi è uno schiaffo troppo sonoro sul volto di molti. Quando il divario nella distribuzione della ricchezza sfugge al controllo. Quando l’equilibrio dei diritti e delle opportunità appare violato. Quando l’uso delle risorse naturali e lo sfruttamento dell’ambiente rischiano di mettere in discussione il nostro futuro.
Insomma, quando la morale stabilita in una comunità appare, in maniera offensiva, finalizzata solo agli interessi di chi nella comunità stessa detiene il potere, allora emerge il bisogno di un nuovo punto di incontro tra le diverse personali, utilitaristiche, ‘morali’. Allora si manifesta il bisogno di una ‘scienza della morale’, di un’etica.
E’ abbastanza evidente che ci troviamo oggi proprio in questa situazione. Di qui l’attenzione alla ‘sostenibilità’, alla ‘Corporate Governance’, di qui l’accanito dibattito attorno al concetto di stakeholder. Di qui la gran attenzione dedicata alla Corporate Social Responsibility.
Di fronte a tutto questo ciò che desta meraviglia, e che un po’ preoccupa, non è tanto la sostanza –la carenza di etica è un dato di realtà, il bisogno di ‘fare qualcosa’ è perfettamente fondato–. Ciò che meraviglia e preoccupa è l’enfasi del nuovo. C’è tutto il motivo per interrogarsi di nuovo, per rileggere Platone e Aritotele e i Padri della Chiesa e Hobbes e Bentham, Kant, Hobbes, Kant, Rousseau, Fichte, Nietzche, Jaspers, Bonhoeffer e Rawls, e anche magari qualche pagina di Drucker. Si potrebbe riprendere in mano la riflessione sulle regole della convivenza, sul controllo e sul contratto sociale, ed anche sulla teoria pura del diritto e sulle diverse genesi dei patti costituzionali.
Ma invece, salvo qualche dotta citazione, si tende piuttosto a prendere come fondamento qualche recente generico ‘documento ufficiale’, come il Green Paper sulla CSR della Commissione Europea (luglio 2001). E si pretende di trovare le risposte in qualche standard: si pensi in Italia al Progetto Q-RES. Come se l’insoddisfazione morale di fronte al funzionamento delle organizzazioni, e quindi il bisogno di etica, potessero essere risolti sul piano della certificazione. Come se l’etica potesse essere imposta, o garantita, attraverso una norma ISO 9000, 9001 o 9004 che sia.
Di fronte a questo approccio, ben venga la cautela espressa da Mario Viviani. Ma forse c’è da dire qualcosa a voce più alta.
Il problema non sta negli strumenti. E anzi nuovi strumenti rischiano di portare confusione e di favorire soluzioni illusorie. Buone per la ‘società dello spettacolo’, ma lontane alla capacità di incidere sui reali meccanismi del potere e sul reale funzionamento delle organizzazioni. Comunque la si giri il ‘bilancio sociale’ resta uno strumento di secondo livello, una riorganizzazione di informazioni costruita innanzitutto in funzione della facilità di lettura e dell’efficacia comunicativa. E’, al limite, una forma di advertising non tradizionale, vale quanto una sponsorizzazione sportiva o una televendita, o una donazione. Visto che è anche una impalcatura costosa, esistono alternative? Garantisce rispetto allo scopo primario, mettere in luce l’atteggiamento etico dell’organizzazione? Non offre magari dei pericolosi alibi?
Il problema non sta negli strumenti, perché forse gli strumenti esistono già. Il ‘bilancio sociale’ si propone come documento di sintesi, documento che riepiloga i dati più significativi emersi dalla gestione, e che permette di misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’. Si cerca di affermare il ‘bilancio sociale’ come strumento adatto per ogni persona giuridica, aziende a scopo di lucro, organizzazioni non profit, enti pubblici, lo stesso Stato. Pensate ora a quello strumento di rilevazione che è il bilancio di esercizio. Uno strumento criticabile fin che si vuole. Ma in grado di offrire una sintesi, di riepilogare i dati più significativi emersi dalla gestione, utile per misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’.E in uso da cinquecento anni, adottato in tutto il mondo, regolato da norme, in grado di permettere confronti.
Perché allora, invece di inventare un nuovo strumento, perché –se si cerca uno strumento in grado di valutare l’etica di una organizzazione– non lavorare a migliorare il ‘bilancio di esercizio’? Se si deve lavorare ad imporre nuovi standard, ben più importante della definizione degli standard di secondo livello tipici del ‘bilancio sociale’ è l’individuazione di parametri attraverso i quali portare alla luce, e a valore, gli asset intantagibili. I brand, gli investimenti in ricerca e sviluppo, le conoscenze detenute da dipendenti e collaboratori, la fidelizzazione dei clienti.
Del resto, si sa che nel bilancio di esercizio fondamentale è la funzione informativa nei confronti delle parti interessante al buon andamento dell'azienda: i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale. Non sono queste le figure sociali che oggi, con forse inutile nuovismo, chiamiamo stakeholder?
Certo, nelle pieghe del bilancio di esercizio si può nascondere l’omissione e l’inganno. Ma altrettanto può accadere, con più facilità, con il bilancio sociale. E certo, il bilancio di esercizio è difficile da leggere. Ma piuttosto che costruire un nuovo strumento, ugualmente non facile da leggere, non sarebbe meglio lavorare per diffondere tra i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale la capacità di leggere veramente il bilancio di esercizio?
La prima verifica della qualità etica di una organizzazione sta, probabilmente, nella trasparenza della sua informazione. Ora, credo che la trasparenza stia molto più nel redigere un bilancio di esercizio veramente completo e leggibile che nel redigere, oltre al bilancio di esercizio (considerato una fastidiosa necessità), un bilancio sociale nel quale ci si racconta come ci pare, confrontandoci con parametri scelti da noi stessi, spesso generici e fumosi e scarsamente vincolanti.
Il problema non sta negli strumenti, e –in fondo– nessun nuovo strumento è necessario neanche per quel che riguarda i Codici di comportamento e le Carte dei valori. Sentirsi dire che l’organizzazione pubblica o privata, orientata o no al profitto “si ispira alla tutela dei diritti umani, del lavoro, della sicurezza, dell’ambiente, nonché al sistema di valori e principi in materia di trasparenza e probità, efficienza energetica, sviluppo sostenibile, così come affermati dalle Istituzioni e dalle Convenzioni Internazionali” è acqua fresca.
Ogni organizzazione possiede un proprio apparato di normative e procedure. Non servono nuovi documenti chiamati in modo nuovo. Servono norme e procedure rispettose dell’etica, e redatte in modo comprensibile.
Questo è particolarmente vero per l’ente del quale parla Viviani nel suo articolo. La Regione emana leggi. Il Codice Etico vale e serve se si inserisce organicamente nel sistema normativo regionale. E più del Codice Etico, conta che tutta la produzione normativa di una Regione, ai diversi livelli di gerarchia delle fonti, sia veramente orientata a trovare un equilibrio etico tra i diversi interessi.

giovedì 1 luglio 2010

Mi sono trovato a usare, mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce

Copio qui la recensione apparsa sul N.6, Giugno 2010, di Scuolanews, network per la conoscenza, newsletter della Scuola Coop di Montelupo (www.scuolacoop.it).

Francesco Varanini, etnografo, scrittore, consulente, ricostruisce la storia del management, a partire dagli anni trenta del novecento. Il manager, affermatosi come figura sociale in grado di conciliare interessi diversi, finisce negli ultimi decenni per badare soprattutto al proprio interesse e per essere l’ambasciatore di un solo stakeholder all’interno delle aziende: Mr Finance, la finanza nella sua forma derivata e totalitaria. Il manager ha un solo padrone, lontano, esigente, diffuso, tentacolare che si individua nella comunità finanziaria ma anche nel direttore della filiale di banca o nel fondo di investimento. La finanza considera l'impresa fatta di persone come una figurina riconducibile a una metrica schematica, fatta di pochi indici di misura, che sono considerati universalmente significativi. Il ragionamento si sposta sulle conseguenza di un tale status quo, che l’autore auspica condurrà alla fine del management per come lo conosciamo. Come sarà fatta la figura che sostituirà il manager? Il meccanismo riduttivo ma se vogliamo efficace di ricondurre il proprio ruolo all'idea di controllo è saltato di fronte ad emergenze incontrollabili: dalla tragedia delle torri gemelle, al pozzo di petrolio che sprigiona greggio senza avere la ragionevole possibilità di un controllo. All’ideologia del controllo e del programma va sostituita la pratica del progetto. Varanini dipinge varie tipologie di manager, senza nascondere le proprie preferenze e critiche. Il testo passa in rassegna anche le storie italiane dei grandi manager che hanno segnato il destino del Paese: da Alberto Beneduce, a Carlo Feltrinelli, ad Adriano Olivetti, a Natale Capellaro. Un testo caratterizzato da spunti storico-filosofici ma anche da scelte di campo nette. “Mi sono trovato a usare, mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.” anticipa al lettore Varanini nell’Introduzione.