Un manager mi scrive: “Francesco, Contro il Management è una lettura interessante ed appassionante. Ti ringrazio per gli spunti che dai e per la profondità di pensiero che porti”.
Altri manager che conosco altrettanto bene, e che ugualmente stimo, accettano di partecipare a pubblici incontri sui temi che tratto nel libro: l’incombenza della finanza, la caduta dei valori, la rinuncia a ‘dirigere’, la prevalenza degli interessi personali, il sostanziale disinteresse per il lavoro, per la produzione. Capita che si scambi qualche riflessione prima o dopo le parole dette in pubblico. In questi momenti, tutti parlano del pessimo clima circostante, del malessere, dell’ingiustizia diffusa, di tutto ciò che si è costretti a vedere, a subire.
Ma poi, in pubblico, anche quando il pubblico è una stretta platea di persone come noi, scatta l’autocensura, e vedo che tutto sfuma nell’eufemismo, nell’attenuazione, nella cautela. E allora sento dire che sì, forse i casi di cui parlo accadono in qualche situazione estrema, ma non sono certo diffusi, e comunque non certo nell’azienda dove io lavoro. Sento dire che forse questo accadeva anni fa, ma non ora. Sento dire che nelle medie e piccole imprese un certo tipo di manager che dipingo non c’è proprio. Sento dire che semmai questa immagine del manager fosse vera, riguarderebbe pochissimi Chief Executive di grandi aziende quotate in borsa. Sento dire che certi eccessi, che forse ci sono stati, non possono più presentarsi, perché la Rete obbliga alla trasparenza.
Veder usare Wikileaks come vincolo tale da indurre i manager a comportamenti meno lontani dall’etica, dà la misura del paradosso. I manager, come i politici, combattono la trasparenza informativa come la peste. Salvo poi appellarsi alla trasparenza informativa quando questa serve a negare l’evidenza.
Capisco questi amici. Non possono sbilanciarsi in pubblico. O almeno credono di non poterlo fare. A tratti, ascoltandoli, mi sorgono dubbi. Ho esagerato? Sono stato miope o fazioso? Non credo. Penso di aver scritto a nome loro, dicendo niente di più di quello che questi stessi amici manager in privato dicono.
A consolazione degli amici manager, posso dire dei professori. Un noto accademico, docente di strategia e direttore di master, è intervenuto a una tavola rotonda cui partecipavo anch’io. In pubblico non si è discostato da una difesa d’ufficio del consolidato modello formativo dei master in Business Administration. Master che sono il luogo dove si riproduce il vano sapere manageriale.Difesa che mi è parsa stanca e poco convinta. E’ naturalmente rimasta senza risposta la domanda chiave: come può andar bene un ‘modello unico’ di management. Come può andar bene in genere, di fronte alle differenze culturali; e come può andar bene nello specifico, di fronte ai bisogni del sistema socio-economico dell’Italia di oggi, fatto soprattutto di medie e piccole imprese.
Ma non è questo che mi ha inquietato. Mi ha inquietato quello che ho sentito dire al professore in privato, lontano dal tavolo dei relatori. Lui stesso, che è professore di strategia, non sa darsi risposte. Non sa in che direzione guardare. Non sa che strada prendere, e che strada indicare a chi, confidente nel suo ruolo, gli chiede lumi.
Capisco che il momento è difficile. Ma se siamo classe dirigente, qualche responsabilità dobbiamo pur prendercela. Cominciare guardandoci in faccia, e riconoscendo quello che non va, dicendolo in pubblico e scrivendolo, mi pare, in mancanza di meglio, un buon punto di partenza.
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mercoledì 15 dicembre 2010
martedì 7 settembre 2010
I manager del disastro
Questa recensione di Giulia Giuliani è apparsa nel numero di agosto 2010 di Mondoperaio, storica rivista di area socialista. Spero che Luigi Covatta, Gennaro Acquaviva, Giovanni Bechelloni e tutti gli altri che conducono attualmente la rivista, si riconoscano ancora nella definizione 'area socialista', e non solo nel sottotitolo 'rivista fondata da Pietro Nenni. Il tempi cambiano, e anche le persone, ma mi pare ci sia in giro una tendenza a rimuovere, piuttosto che a ragionare su passato e presente.
La recensione mi pare proprio ben fatta. Apprezzo l'inizio, autobiografico. "Un'amica di ritorno dalle ferie trascorse in Sardegna proprio in questi giorni mi racconta la delusione provata nel venire a sapere che un maestoso vigneto con la sua storica e suggestiva cantina, che era andata a visitare, sono passati dalle mani degli originari proprietari isolani a un rinomato marchio a livello internazionale di bibite e di aperitivi. In luogo dell'impresa a prevalente conduzione familiare, con un forte radicamento alla terra e alle tradizioni del luogo. la gestione è oggi così affidata ad un'imponente azienda che possiede insediamenti produttivi dislocati in diverse parti del mondo".
Restare legati a ciò che ci dicono amiche e amici è un buon antidoto, forse una pratica indispensabile, se non vogliamo soccombere alle informazioni che ci propina normalmente la stampa, informazioni legate a interessi di lobby e spesso così lontane dalla realtà.
Le ragioni di una famiglia che sceglie di cedere l'impresa sono evidenti e comprensibili. Non si tratta di essere sempre e comunque contro le ragioni della finanza, contro la globalizzazione e l'internazionalizzazione. Si tratta, credo, però, di mantener viva la nostra capacità di pensare in modo 'controfattuale'. Siamo veramente sicuri che la resa a un certo modello economico dominato dalla finanza è inevitabile? C'è qualcuno che ha saputo e voluto continuare con l'impresa a conduzione familiare. E possiamo creare un contesto perché questa scelta risulti meno difficile.
La recensione mi pare proprio ben fatta. Apprezzo l'inizio, autobiografico. "Un'amica di ritorno dalle ferie trascorse in Sardegna proprio in questi giorni mi racconta la delusione provata nel venire a sapere che un maestoso vigneto con la sua storica e suggestiva cantina, che era andata a visitare, sono passati dalle mani degli originari proprietari isolani a un rinomato marchio a livello internazionale di bibite e di aperitivi. In luogo dell'impresa a prevalente conduzione familiare, con un forte radicamento alla terra e alle tradizioni del luogo. la gestione è oggi così affidata ad un'imponente azienda che possiede insediamenti produttivi dislocati in diverse parti del mondo".
Restare legati a ciò che ci dicono amiche e amici è un buon antidoto, forse una pratica indispensabile, se non vogliamo soccombere alle informazioni che ci propina normalmente la stampa, informazioni legate a interessi di lobby e spesso così lontane dalla realtà.
Le ragioni di una famiglia che sceglie di cedere l'impresa sono evidenti e comprensibili. Non si tratta di essere sempre e comunque contro le ragioni della finanza, contro la globalizzazione e l'internazionalizzazione. Si tratta, credo, però, di mantener viva la nostra capacità di pensare in modo 'controfattuale'. Siamo veramente sicuri che la resa a un certo modello economico dominato dalla finanza è inevitabile? C'è qualcuno che ha saputo e voluto continuare con l'impresa a conduzione familiare. E possiamo creare un contesto perché questa scelta risulti meno difficile.
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Gli inganni della finanza
Questa recensione di Fabio Ranucci è apparsa il 4 settembre 2010 su Conquiste del lavoro, quotidiano della CISL.
La rassegna del mio testo la trovo precisissima ed efficace.
Mi piacerebbe però che a partire dalle cose che scrivo -che non sono del resto che un riflesso di ragionamenti condivisi da molti- si innescasse una riflessione su come il sindacato si impegna realmente nel promuovere un coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione d'impresa.
Scrivo nel libro, nel paragrafo Stakeholder, svegliatevi:
"Vorrei per esempio vedere un sindacato che va oltre la difesa rituale di interessi costituiti, che va oltre la definizione di quadri normativi. Vorrei vedere un sindacato non più solo contropotere, ma invece potere: impegnato nella direzione aziendale, capace di imporre proprie metriche per misurare i risultati e di imporre criteri di ripartizione degli utili. Non ditemi che non si può fare. Prima che il sindacato si affermasse, chi aveva interessi da difendere aveva buon gioco a sostenere che nel panorama sociopolitico non ci sarebbe mai stato spazio per il sindacato."
La rassegna del mio testo la trovo precisissima ed efficace.
Mi piacerebbe però che a partire dalle cose che scrivo -che non sono del resto che un riflesso di ragionamenti condivisi da molti- si innescasse una riflessione su come il sindacato si impegna realmente nel promuovere un coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione d'impresa.
Scrivo nel libro, nel paragrafo Stakeholder, svegliatevi:
"Vorrei per esempio vedere un sindacato che va oltre la difesa rituale di interessi costituiti, che va oltre la definizione di quadri normativi. Vorrei vedere un sindacato non più solo contropotere, ma invece potere: impegnato nella direzione aziendale, capace di imporre proprie metriche per misurare i risultati e di imporre criteri di ripartizione degli utili. Non ditemi che non si può fare. Prima che il sindacato si affermasse, chi aveva interessi da difendere aveva buon gioco a sostenere che nel panorama sociopolitico non ci sarebbe mai stato spazio per il sindacato."
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sabato 21 agosto 2010
Pars Construens: Chiasmo Biblico
Credo sia giusto, a partire dall’indignazione e dalla consapevolezza dell’ingiustizia, criticare il management. Questo ho fatto nella prima parte del libro. Ma ho cercato anche, in una seconda parte, di descrivere un modo di dirigere l’impresa fondato su sul rispetto di se stessi e la considerazione degli altri.
Come dico nel libro, si possono trovare tracce di questo atteggiamento -orientato alla guida, al governo e alla cura- in culture lontane, come il buddhismo. Ma anche in fonti più vicine a noi, alla nostra formazione e alla nostra cultura, come è il testo biblico.
Questo incrocio di quattro assi, quattro chiavi di lettura del mondo, quattro atteggiamenti -che credo compresenti, almeno in qualche misura, in ognuno di noi- l’ho in mente da tanto tempo. Mi ha fatto piacere riprenderlo qui, in questo libro tramite il quale faccio i conti con una non trascurabile porzione della mia vita.
Portare la propria croce
Il latino labor esprime l'idea di attività dura e penosa. Idea probabilmente ricavata dal verbo labare: 'vacillare sotto un peso'.
Anche il francese, lo spagnolo e portoghese (travail, trabajo, trabalho) ci parlano di sofferenza. Tripalium: strumento di tortura -tre pali, croce- al quale il reo è costretto. Così è qualsiasi lavoro.
Ogni persona al lavoro è chiamata a 'farsi carico'. Vive il suo calvario. Sopporta pesi, patisce ingiustizie. Sulle sue spalle grava il peso di una croce, quella stessa croce alla quale sarà inchiodato se le cose non andranno per il verso giusto.
Allo stesso tempo, la croce che ognuno porta, è il mezzo attraverso il quale gli altri saranno salvati.
Il comune obiettivo impone a ognuno di considerare propria la croce dell’altro. Così il ‘portare la propria croce’ si manifesta come servizio.
Il latino servum, ben prima dall'indicare lo 'schiavo', parlava di 'guardiano di greggi'. La radice indoeuropea swer- esprime un insieme di concetti di grande respiro: 'vedere', 'guardare', 'conservare'. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer-, il sanscrito varutá, 'protettore'; il greco horán ('vedere'); così come il latino observare: ob, ‘verso’ servare, ‘custodire’, con la duplice accezione di 'fare attenzione', 'adempiere', e di 'non togliere mai gli occhi di dosso'.
Il servizio è connesso alla visione, alla saggezza, alla conoscenza.
Come si legge nel capitolo 42 di Isaia (Isaia, 42, 2-4), a proposito del Servo di Javhé, possiamo pensare, al posto del manager, ad una persona che
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà.
Essere come Dio
Chi guida, governa, cura l'azienda è sostituto del Dio assente. Non può garantire che le aspettative dei diversi portatori di interessi siano soddisfatte. Ma può essere garante di un terreno comune, di uno spazio per l'ambizione.
Lontana dall'arroganza del manager, l’ambizione è desiderio vivo. Chiunque ben intende la natura dell'impresa, chi vive in azienda, desidera andare oltre i limiti di ciò che si vede, si confronta con l’ignoto, parla di ciò che non c’è ancora. E' portatore di speranza.
Nel caos della vita quotidiana dell'azienda, dove domina, nonostante tutti i piani ed i programmi, il massimo disordine, proprio lì è possibile cogliere le radici del mondo emergente. Le parole di chi guida, governa, cura l'azienda, così come le sue azioni, illuminano la scena, guardano senza timore il caos. Sciolgono il garbuglio e indirizzano il lavoro verso lo scopo. (Isaia 65, 17-18)
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare.
Costruire pietra su pietra
L'azienda è lenta e attenta costruzione. Costruire è lavorare con attenzione, consapevolezza dei dettagli.
Costruire è porre attenzione alla struttura: alle correlazioni, alle interdipendenze, alle connessioni.
Costruire pietra su pietra significa ricordare che l'azienda si costruisce innanzitutto mettendo le basi, partendo dalle fondamenta. (Isaia 28,16)
Ecco io pongo una pietra in Sion,
una pietra scelta,
angolare, preziosa, saldamente fondata:
chi crede non vacillerà.
Eppure chi guida, governa, cura l'azienda non può cercare una astratta perfezione. Dobbiamo costruire con le pietre che troviamo. Così, recuperando colonne di templi romani si costruivano le cattedrali romaniche. La migliore delle pietre possibili è quella che riesco ad avere a disposizione mentre lavoro. Su queste pietre ‘non ottime’ si fonda la costruzione che mi è dato di realizzare. (Salmo 118, 22)
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta testata d'angolo
Gettare il pane alle onde
Getta il pane alle onde, alla lunga lo ritroverai, dice Qohelet (Ecclesiaste 11, 1). La 'cultura orientale' alla quale mi ero avvicinato da lontano, in punta di piedi, guardando alla lezione buddista, è portata da Qohelet nel cuore della nostra 'cultura occidentale'.
L'azienda si guida, si governa, si cura dando prova, giorno dopo giorno, di confidenza e fiducia, di rispetto per se stessi e di considerazione per gli altri, di serenità d’animo. Lo scopo si avvicina mettendo da parte l’illusione e l’attaccamento ad ogni fonte di rassicurazione. (Ecclesiaste, 3, 1; Ecclesiaste, 4-7)
Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Non c’è nessuna ragione, nessun modello che può dirci quale è il ‘momento propizio’ per agire, per fare una o un’altra cosa. Né la ragione ci aiuta a leggere i segnali deboli, a cogliere il momento in cui si avvicina la tempesta.
Qohelet ci esorta a ‘lasciar vivere’ l'azienda, minimizzando i requisiti e limitando il controllo. Laa saggezza è più importante della ragione. La saggezza è moderazione, equilibrio, ed è conoscenza delle cose acquisita con l’esperienza.
Gettare il pane alle onde: accettare l'azienda che ‘si fa’, sorvegliare come si guarda il gregge, o il grano che cresce.
Come dico nel libro, si possono trovare tracce di questo atteggiamento -orientato alla guida, al governo e alla cura- in culture lontane, come il buddhismo. Ma anche in fonti più vicine a noi, alla nostra formazione e alla nostra cultura, come è il testo biblico.
Questo incrocio di quattro assi, quattro chiavi di lettura del mondo, quattro atteggiamenti -che credo compresenti, almeno in qualche misura, in ognuno di noi- l’ho in mente da tanto tempo. Mi ha fatto piacere riprenderlo qui, in questo libro tramite il quale faccio i conti con una non trascurabile porzione della mia vita.
Portare la propria croce
Il latino labor esprime l'idea di attività dura e penosa. Idea probabilmente ricavata dal verbo labare: 'vacillare sotto un peso'.
Anche il francese, lo spagnolo e portoghese (travail, trabajo, trabalho) ci parlano di sofferenza. Tripalium: strumento di tortura -tre pali, croce- al quale il reo è costretto. Così è qualsiasi lavoro.
Ogni persona al lavoro è chiamata a 'farsi carico'. Vive il suo calvario. Sopporta pesi, patisce ingiustizie. Sulle sue spalle grava il peso di una croce, quella stessa croce alla quale sarà inchiodato se le cose non andranno per il verso giusto.
Allo stesso tempo, la croce che ognuno porta, è il mezzo attraverso il quale gli altri saranno salvati.
Il comune obiettivo impone a ognuno di considerare propria la croce dell’altro. Così il ‘portare la propria croce’ si manifesta come servizio.
Il latino servum, ben prima dall'indicare lo 'schiavo', parlava di 'guardiano di greggi'. La radice indoeuropea swer- esprime un insieme di concetti di grande respiro: 'vedere', 'guardare', 'conservare'. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer-, il sanscrito varutá, 'protettore'; il greco horán ('vedere'); così come il latino observare: ob, ‘verso’ servare, ‘custodire’, con la duplice accezione di 'fare attenzione', 'adempiere', e di 'non togliere mai gli occhi di dosso'.
Il servizio è connesso alla visione, alla saggezza, alla conoscenza.
Come si legge nel capitolo 42 di Isaia (Isaia, 42, 2-4), a proposito del Servo di Javhé, possiamo pensare, al posto del manager, ad una persona che
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà.
Essere come Dio
Chi guida, governa, cura l'azienda è sostituto del Dio assente. Non può garantire che le aspettative dei diversi portatori di interessi siano soddisfatte. Ma può essere garante di un terreno comune, di uno spazio per l'ambizione.
Lontana dall'arroganza del manager, l’ambizione è desiderio vivo. Chiunque ben intende la natura dell'impresa, chi vive in azienda, desidera andare oltre i limiti di ciò che si vede, si confronta con l’ignoto, parla di ciò che non c’è ancora. E' portatore di speranza.
Nel caos della vita quotidiana dell'azienda, dove domina, nonostante tutti i piani ed i programmi, il massimo disordine, proprio lì è possibile cogliere le radici del mondo emergente. Le parole di chi guida, governa, cura l'azienda, così come le sue azioni, illuminano la scena, guardano senza timore il caos. Sciolgono il garbuglio e indirizzano il lavoro verso lo scopo. (Isaia 65, 17-18)
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare.
Costruire pietra su pietra
L'azienda è lenta e attenta costruzione. Costruire è lavorare con attenzione, consapevolezza dei dettagli.
Costruire è porre attenzione alla struttura: alle correlazioni, alle interdipendenze, alle connessioni.
Costruire pietra su pietra significa ricordare che l'azienda si costruisce innanzitutto mettendo le basi, partendo dalle fondamenta. (Isaia 28,16)
Ecco io pongo una pietra in Sion,
una pietra scelta,
angolare, preziosa, saldamente fondata:
chi crede non vacillerà.
Eppure chi guida, governa, cura l'azienda non può cercare una astratta perfezione. Dobbiamo costruire con le pietre che troviamo. Così, recuperando colonne di templi romani si costruivano le cattedrali romaniche. La migliore delle pietre possibili è quella che riesco ad avere a disposizione mentre lavoro. Su queste pietre ‘non ottime’ si fonda la costruzione che mi è dato di realizzare. (Salmo 118, 22)
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta testata d'angolo
Gettare il pane alle onde
Getta il pane alle onde, alla lunga lo ritroverai, dice Qohelet (Ecclesiaste 11, 1). La 'cultura orientale' alla quale mi ero avvicinato da lontano, in punta di piedi, guardando alla lezione buddista, è portata da Qohelet nel cuore della nostra 'cultura occidentale'.
L'azienda si guida, si governa, si cura dando prova, giorno dopo giorno, di confidenza e fiducia, di rispetto per se stessi e di considerazione per gli altri, di serenità d’animo. Lo scopo si avvicina mettendo da parte l’illusione e l’attaccamento ad ogni fonte di rassicurazione. (Ecclesiaste, 3, 1; Ecclesiaste, 4-7)
Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Non c’è nessuna ragione, nessun modello che può dirci quale è il ‘momento propizio’ per agire, per fare una o un’altra cosa. Né la ragione ci aiuta a leggere i segnali deboli, a cogliere il momento in cui si avvicina la tempesta.
Qohelet ci esorta a ‘lasciar vivere’ l'azienda, minimizzando i requisiti e limitando il controllo. Laa saggezza è più importante della ragione. La saggezza è moderazione, equilibrio, ed è conoscenza delle cose acquisita con l’esperienza.
Gettare il pane alle onde: accettare l'azienda che ‘si fa’, sorvegliare come si guarda il gregge, o il grano che cresce.
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