mercoledì 29 dicembre 2010

La finanza narrata. Romanzi classici e romanzi possibili

Ho ritrovato uno scritto del 1999.
Lì citavo Balzac e la sua Parigi e il suo tempo. In particolar modo, credo, avevo in mente Illusions perdues (1843).
Scrivevo:

La società è una palestra di interessi economici: tutti vi siamo implicati, si vale solo se si riesce ad imporsi. "Il successo è divenuto il principio supremo di un'epoca atea", il sigillo dei tempi nuovi, sia in industria che in economia arte e spirito. Si assiste al "dilagare della finanza". Non è più possibile distinguere un commerciante da un pari di Francia; il nuovo titolo di nobiltà nella della società moderna è l'essere "il più tassato di tutto il circondario". Politica amore e arte sono diretti dal denaro. La produzione in serie distrugge il valore artistico e artigianale del lavoro: "nous avons des produits, nous n'avons plus d'oeuvres". Non conta più "l'energia isolata, ricca di creazioni originali", conta invece "l'energia uniforme, ma livellatrice, che parifica i prodotti, li produce in massa, obbedendo a una idea unitaria". 

In Contro il Management cito Zola, L’Argent (1891). Sono passati cinquant'anni, lo scenario si è evoluto, ma gli elementi di fondo del quadro non è cambiato. La pressione della finanza è sempre più evidente. La Borsa -già intesa nel 1808 da Napoleone, quando pose la prima pietra del palazzo che doveva ospitarla, come "le thermomètre de la confiance publique"- è l'ombelico del mondo fondato sulla finanza.
Si completa il disegno già descritto da Balzac, un disegno sociale economico, ma anche di pianificazione urbanistica e territoriale. Le fabbriche stanno in periferia, in provincia. Il centro della metropoli, invece, si identifica con la finanza, ed il suo luogo simbolico: la Borsa. Ecco la Parigi di Napoleone III nel 1867, alla vigilia dell'Exposition Universelle, freneticamente attiva, assordata dal rumore dei cantieri aperti dal prefetto Haussmann, che sventra la città e la rimodella come moderno salotto di boulevard e gallerie commerciali. E al centro, qui, come in quegli stessi anni a Londra e a New York, la Borsa.
La speculazione finanziaria si sostituisce al lavoro. Rappresenta in forma semplificata ed estrema “l'eterno desiderio che spinge a lottare e a vivere”. “Un grande sogno, da un soldo ricavarne cento”. Zola, nel romanzo L'Argent, ci descrive meglio di qualsiasi economista, di qualsiasi storico o sociologo il significato sociale di questo luogo: frastuono spaventoso, continuo gesticolare degli agenti, “danzante mimica dei corpi, quasi pronti a divorarsi reciprocamente”, trionfi, crolli, speranze, duri dati di realtà. Aristide Saccard, protagonista romanzo “è veramente il poeta del milione”. “I suoi figli, le sue donne, insomma tutto ciò che lo circonda, viene per lui dopo il denaro”. “Non era forse, il denaro, e soltanto il denaro, la forza che può spianare una montagna, colmare un braccio di mare, rendere la terra finalmente abitabile per gli uomini, liberati dal giogo del lavoro che abbruttisce, facendoli diventare conduttori di macchine?”.
Come sostengo in altri miei libri, e anche in Contro il management, nessun sociologo, nessuno storico, nessuno studioso di discipline economiche e aziendalistiche sa descrivere il mondo della fianza e dell'impresa come sanno fare i romanzieri. Quindi, anche se non mi viene in mente al momento nessun romanzo contemporaneo comparabile con Le illusioni perdute e Denaro, credo che né Balzac ne Zola siano eccezioni. Quello che è certo è che il materiale romanzesco non manca.
Bastano due esempi. Il primo: una notizia apparsa di recente sulla stampa parla del nuovo investimento della Deutsche Bank. Cito da Repubblica del 17 dicembre 2010: la Deutsche Bank, la più forte, moderna e globale banca d' affari tedesca, ha appena aperto un gigantesco casinò di superlusso, con annesso hotel, a Las Vegas. The Cosmopolitan, si chiama la nuova super-casa da gioco voluta dai signori della finanza di Francoforte.
Hanno investito 4 miliardi di dollari per realizzare l' enorme grattacielo, un nuovo simbolo della metropoli del gioco d' azzardo. Ben 83 tavoli da gioco, 1474 slot machines di ogni genere,e tremila tra cameree suites. Deutsche Bank si mostra come sempre sicura di aver fatto centro: alla fine, tra i tanti giocatori d' azzardo che saranno suoi ospiti, qualcuno vincerà alla roulette, al poker o alle slot machines, ma alla fine i grandi profitti li realizzerà il colosso finanziario. La certezza di non aver sbagliato è tanta che gli spot pubblicitari per l' apertura mostrano signore mature che ballano con bei giovanotti tastando loro il posteriore, o commensali attorno a specie di triclini. "Just the right amount of wrong", solo la dose giusta di errore e trasgressione, è lo slogan.
I maligni hanno gioco facile a paragonare il comportamento delle banche nella crisi internazionale con il gioco d' azzardo: hanno guadagnato scommettendo su crolli azionari o successi di film, hanno lanciato molti prodotti di cui solo pochi garantivano soldi. Come appunto in un casinò. Ma Las Vegas ha conosciuto anche bancarotte: nel 2007 fallì la investment bank Bear Stearns, e trascinò nel crollo la Fontainebleau, che gestiva una delle maggiori case. Carl Icahn la rilevò dai curatori fallimentari per "appena" 150 milioni di dollari. In tanti modi, dopo il faites votre jeu può arrivare il rien ne va plus.
Il secondo esempio è dell'autunno 2009. Un titolo sul Sole 24 ore recita: “Da ingegnere della finanza a mago del poker online”. La crisi della finanza, di un certo modo di fare finanza, è coincisa con il boom del poker. E' possibile, credo, cogliere connessioni tra i due trend. Potremmo dire che non c'è soluzione di continuità tra il trading on line e il giocare a poker. In entrambi i casi, si scommette il denaro sulla capacità di intercettare situazioni emergenti. Una discontinuità sta semmai nel fatto che chi fa trading on line può mettere in gioco denaro proprio, ma anche denaro altrui che gli è stato affidato in gestione. Mentre se gioco a poker, metto in gioco denaro vero o virtuale, ma sempre denaro di mia proprietà.
Non c'è da meravigliarsi che persone espulse per un verso dal mercato del lavoro, rientrino in scena su un mercato parallelo che premia le stesse attitudini e le stesse abilità: gestione del rischio rapidità di decisione, lettura dei segnali deboli, consuetudine con l'intangibile. Ma si può anche allargare il discorso. Si può ragionevolmente dire, senza che l'analogia appaia forzata, che un certo deleterio modo di intendere e di imporre al mondo la finanza che oggi domina il mondo è giocare a poker. Giocare a poker con il denaro altrui. Il denaro affidato alle istituzioni finanziarie, è presto spogliato di informazioni relative alla fonte, è presto spogliato dagli indirizzi che colui che mi ha affidato il suo denaro aveva in mente. Lo spazio aperto alle intenzioni di coloro che forniscono il denaro è ben delimitato. L'asimmetria di potere e di informazioni permette alla finanza di fare ciò che vuole.
L'analogia con il poker, mi pare, mette in luce l'essenza della finanza degenerata che abbiamo sotto gli occhi. Così come il poker, la finanza si fonda sul bluff. To brag, boast, to baffle, mislead. Vantarsi, millantare, confondere, trarre in inganno. A qualsiasi valore costruito lavorando, si sostituisce il valore apparente millantato al tavolo da gioco. Il più abile, il vincitore, è chi è più capace a vendere fumo e ad ingannare. Difficile concepire qualcosa di più riprovevole da un punto di vista etico.

mercoledì 15 dicembre 2010

Quello che i manager non dicono

Un manager mi scrive: “Francesco, Contro il Management è una lettura interessante ed appassionante. Ti ringrazio per gli spunti che dai e per la profondità di pensiero che porti”.
Altri manager che conosco altrettanto bene, e che ugualmente stimo, accettano di partecipare a pubblici incontri sui temi che tratto nel libro: l’incombenza della finanza, la caduta dei valori, la rinuncia a ‘dirigere’, la prevalenza degli interessi personali, il sostanziale disinteresse per il lavoro, per la produzione. Capita che si scambi qualche riflessione prima o dopo le parole dette in pubblico. In questi momenti, tutti parlano del pessimo clima circostante, del malessere, dell’ingiustizia diffusa, di tutto ciò che si è costretti a vedere, a subire.
Ma poi, in pubblico, anche quando il pubblico è una stretta platea di persone come noi, scatta l’autocensura, e vedo che tutto sfuma nell’eufemismo, nell’attenuazione, nella cautela. E allora sento dire che sì, forse i casi di cui parlo accadono in qualche situazione estrema, ma non sono certo diffusi, e comunque non certo nell’azienda dove io lavoro. Sento dire che forse questo accadeva anni fa, ma non ora. Sento dire che nelle medie e piccole imprese un certo tipo di manager che dipingo non c’è proprio. Sento dire che semmai questa immagine del manager fosse vera, riguarderebbe pochissimi Chief Executive di grandi aziende quotate in borsa. Sento dire che certi eccessi, che forse ci sono stati, non possono più presentarsi, perché la Rete obbliga alla trasparenza.
Veder usare Wikileaks come vincolo tale da indurre i manager a comportamenti meno lontani dall’etica, dà la misura del paradosso. I manager, come i politici, combattono la trasparenza informativa come la peste. Salvo poi appellarsi alla trasparenza informativa quando questa serve a negare l’evidenza.
Capisco questi amici. Non possono sbilanciarsi in pubblico. O almeno credono di non poterlo fare. A tratti, ascoltandoli, mi sorgono dubbi. Ho esagerato? Sono stato miope o fazioso? Non credo. Penso di aver scritto a nome loro, dicendo niente di più di quello che questi stessi amici manager in privato dicono.
A consolazione degli amici manager, posso dire dei professori. Un noto accademico, docente di strategia e direttore di master, è intervenuto a una tavola rotonda cui partecipavo anch’io. In pubblico non si è discostato da una difesa d’ufficio del consolidato modello formativo dei master in Business Administration. Master che sono il luogo dove si riproduce il vano sapere manageriale.Difesa che mi è parsa stanca e poco convinta. E’ naturalmente rimasta senza risposta la domanda chiave: come può andar bene un ‘modello unico’ di management. Come può andar bene in genere, di fronte alle differenze culturali; e come può andar bene nello specifico, di fronte ai bisogni del sistema socio-economico dell’Italia di oggi, fatto soprattutto di medie e piccole imprese.
Ma non è questo che mi ha inquietato. Mi ha inquietato quello che ho sentito dire al professore in privato, lontano dal tavolo dei relatori. Lui stesso, che è professore di strategia, non sa darsi risposte. Non sa in che direzione guardare. Non sa che strada prendere, e che strada indicare a chi, confidente nel suo ruolo, gli chiede lumi.
Capisco che il momento è difficile. Ma se siamo classe dirigente, qualche responsabilità dobbiamo pur prendercela. Cominciare guardandoci in faccia, e riconoscendo quello che non va, dicendolo in pubblico e scrivendolo, mi pare, in mancanza di meglio, un buon punto di partenza.

mercoledì 8 dicembre 2010

Contro il management: scheda di sintesi e Introduzione

Una recensione del libro è apparsa lunedì 6 dicembre 2010 sul quotidiano on-line 'Affari Italiani', nella rubrica 'Rigoletto', a firma di Angelo de' Cherubini. Potete leggere qui.
Nessuna parola inutile. Il recensore mi lascia parola. Non posso pretendere di più. Considero presentazioni come questa particolarmente utili per avvicinare al libro lettori.