Comunque la si metta, Monti è un
‘tecnico’. Vorrei non dimenticassimo che ‘tecnico’ è un
altro modo per dire ‘manager’. Ricordiamo che nella nostra
lingua fino agli anni sessanta si diceva ‘tecnico’ per intendere
ciò che oggi chiamiamo ‘manager’. La domanda è: possiamo
fidarci dei manager? Riuscirà un gruppo di manager a fare ciò che
non ha saputo fare un’intera classe politica? Spero di sì, e penso
che la decisione del Presidente Napolitano sia stata una buona
decisione.
Ma in questo momento diventa
specialmente importante riflettere sul ruolo del manager.
Ho scritto questo libro, Contro il
management, per mettere in guardia di fronte alle malefatte e
alla pericolosità dei manager. Ho anche detto -e ne sono ancora
convinto- che, così come siamo pronti a dire subito dei difetti e
dell’inaffidabilità dei politici di professione, altrettanto, ed
anzi di più, dovremmo imparare a diffidare dei manager.
Eppure, diamo il benvenuto a Monti. Non
solo perché la situazione di stallo non vedeva molte altre soluzioni
ragionevoli. Non solo perché il nostro stare nel mondo richiedeva
rappresentanti in grado di non ledere la nostra immagine, e la nostra
stessa dignità. Non solo perché serviva qualcuno in grado di
‘metterci la faccia’, serviva qualcuno che potesse essere
riconosciuto come interlocutore autorevole, di fronte ai leader
politici stranieri, di fronte ai fin troppo nominati e rispettati
‘mercati’.
Diamo il benvenuto a Monti perché il
manager può essere veramente la figura che serve, qui ed ora.
Possiamo ricordare che -come mostro in
Contro il management-
questa figura di tecnico, chiamato a gestire organizzazioni
complesse, è venuta alla luce negli anni ‘30 del secolo scorso,
come risposta alla crisi di allora. Credo che si possa dire che le
risposte, allora, furono date, sotto molti aspetti, in modo più
fermo e preciso di quanto sia stato fatto ai nostri giorni, di fronte
a una crisi che non è meno grave.
L’ora dei tecnici
Il manager emerse allora come figura
‘laica’, indipendente da ogni portatore di interessi. Di fronte
all’eccessivo prevalere di un interesse su un altro, serve un
tecnico che gestisca il potere contemperando i diversi interessi. Una
figura sociale in grado di trovare, e di imporre a tutti, un
ragionevole punto di incontro tra i diversi interessi. Pensiamo al
prevalere dell’interesse della speculazione finanziaria rispetto
all’interesse dei ceti produttivi; pensiamo ai divergenti interessi
di giovani alla ricerca di lavoro e di anziani attenti alla pensione;
pensiamo al conflitto tra chi paga le tasse e chi non le paga;
pensiamo all’opposizione tra orientamenti centralistici e la
tendenza ad incrementare le autonomie locali; pensiamo all’allargarsi
del divario tra ricchi e poveri; alla perdurante distanza tra Nord e
Sud.
Certo, il senso del limite, della
misura, del bene comune, dell’interesse collettivo, dovrebbe far
parte del bagaglio di ognuno. Certo, dovremmo, e potremmo essere
capaci, discutendo in pubblico -questa è in fondo la democrazia:
discussione in pubblico- dovremmo essere capaci di trovare un punto
di incontro, di equilibrio, un’area di convergenza. Ma intanto,
prima che la casa comune sia irreparabilmente danneggiata, bisogna
fare qualcosa. Ecco che si rende necessario ricorrere al manager. La
storia non si ripete, ma ricordiamo che negli anni ‘30 dove
fallirono i manager vinsero le dittature.
Di una simile figura, oggi abbiamo
bisogno. Il lavoro del manager si riassume in questo: scontentare
ogni interesse di parte in funzione dell’interesse collettivo.
Precisamente ciò che non riescono a fare -ed anzi, in fondo non
possono fare- i partiti politici. I partiti, per quanto allarghino la
propria base sociale, nascono appunto per rappresentare alcuni
interessi, e non altri.
Questo ragionamento porta a riflettere
sul complessivo senso della politica e della democrazia. Ma non
allarghiamoci. Badiamo a fare qualcosa che serva adesso, senza
perdere tempo. Ricordiamo che per il manager, in fondo, vale il
detto: ‘non importa di che colore è il gatto, basta che prenda i
topi’.
Il ‘topi da prendere’ possono
essere riassunti in tre parole: crescita, responsabilità,
equità.
Crescita, responsabilità, equità
Però la prima parola, crescita,
a guardar bene non ci serve a nulla, ed è fin pericolosa. Tramontata
l’illusione che voleva la ricchezza di pochi fonte di vantaggio per
tutti, risulta necessario precisare di che crescita si tratta. E’
crescita anche la crescita della diseguaglianza e dell’ingiustizia.
Dovremmo quindi dire: crescita come, crescita per chi, crescita
quando, crescita dove.
Perciò, di tutto ciò che va dicendo
Monti, restano due parole: responsabilità ed equità.
Guardiamo dunque alla responsabilità.
La parola è stata ultimamente abusata e sbeffeggiata, la si è
costretta a dire il contrario di ciò che essa vuol dire.
Responsabile è colui che rinuncia all’interesse di parte in
funzione dell’interesse collettivo, colui che manifesta
solidarietà, colui che non svende il futuro in cambio del presente,
colui che non antepone il proprio personale vantaggio al bene comune.
Quindi agiscono in modo non
responsabile i politici che sostengono governi privi di progettualità
e asserviti alla difesa di interessi di parte. E altrettanto,
agiscono in modo non responsabile quei manager che asservono le
imprese al prevalere di un interesse su tutti gli altri: caso tipico,
di questi tempi, i manager che si sentono al servizio dell’azionista
o magari dello speculatore di borsa, ma non altrettanto al servizio
dei lavoratori dell’impresa da loro diretta, dei clienti, dei
fornitori, di coloro che vivranno in futuro dell’impresa, se questa
non sarà schiacciata da interessi di breve periodo.
E ancora, non sono responsabili coloro
-e sono molti- sostengono che l’Italia non deve pagare il proprio
debito. Dicono: se dall'altra parte c’è un ladro, non c’è
debito nei suoi confronti. Dicono ancora: quel debito non l’abbiamo
contratto noi, quindi noi non paghiamo. Ma esportare la colpa,
dipingendo l’altro come la fonte del male, è un tipico meccanismo
di fuga. Dovremmo invece pensare -senza per questo dimenticare le
colpe più gravi e le ingiustizie che abbiamo sotto gli occhi-
dovremmo pensare che sì, ognuno di noi è stato causa di quanto è
accaduto. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità,
abbiamo goduto di situazioni di comodo. A tutti compete contribuire
a trovare una praticabile via d’uscita. I nostri creditori non sono
solo avidi speculatori, ma sono anche persone come noi che hanno
prestato denaro al nostro paese. Se i padri compiono errori, sta ai
figli ripararli – nel proprio interesse. L’indignazione ha senso
se si risolve in azione. Non si vive di sola opposizione. Non si vive
senza una classe dirigente. Infatti, alla fine si ricorre ai manager.
L’altra parola, che speriamo Monti
non dimentichi strada facendo, è equità. Appunto,
scontentare tutti negli interesse di tutti. Cercare un punto di
incontro, un’area di convergenza in nome di tutti gli interessi in
gioco. Anche degli interessi di chi non ha voce.
Per questo serve, più della competenza
tecnica, un atteggiamento etico. Più che razionalità, serve
saggezza.
I bocconiani
Questo è il punto chiave: perché
dovremmo fidarci di un tecnico? E in special modo, perché dovremmo
fidarci di un tecnico bocconiano?
In Contro il management ho
argomentato, spero in modo abbastanza convincente, contro i tecnici
bocconiani. Mi esprimo in termini generali e faccio appello alla
saggezza. Quindi non vale la difesa del tipo ‘io sono diverso’.
Riflettano i bocconiani su uno scivolamento che ha caratterizzato la
loro scuola: si sono allontanati dalla lezione di Gino Zappa, che
incarnava una tradizione italiana, legata al nostro modo di fare
impresa, legata all’idea di azienda come luogo di incontro e di
temperamento dei diversi interessi in gioco. Hanno trascurato questa
tradizione per divenire gli ambasciatori nel nostro paese del
management di marca statunitense. Che nascondeva in sé l’inganno e
il non detto: esistono diversi interessi in gioco, ma un interesse
vale più degli altri. Il profitto prevale sulla remunerazione del
lavoro. La Bocconi e la Sda si sono fatti vanto di inserire l’Italia
nel quadro del capitalismo anglosassone. Il neoliberismo, ed il
governo dell’impresa che si inserisce in questo quadro, sono state
il vanto dell’università e della business school. Ma queste regole
e questo governo hanno contribuito alla nostra rovina tanto quanto, o
forse più, dell'insipienza della nostra classe politica. Per questa
via, alla fin fine, l’interesse della finanza speculativa ha finito
per prevalere in modo smaccato su ogni altro interesse.
Cosa possiamo aspettarci
Dobbiamo dunque sperare che Monti
riesca a prescindere da questa tradizione, da questa scuola.
L’orgoglio dell’essere italiani, il recupero della nostra
reputazione e della nostra stessa dignità non stanno nell’essere
uguali agli altri. In nostro futuro non può emergere da scuole ed
università i cui insegnamenti finiscono per legittimare e favorire
il prevalere dell’interesse finanziario. Essere ben piazzati in
certe classifiche che mettono in fila università e business school
di ogni dove, dovrebbe essere inteso più come difetto che come
pregio. Quei manager fatti con lo stampino che escono dalla Bocconi e
dalla Sda con il massimo dei voti e con le migliori opportunità di
impiego, non sono certo i manager che possono portarci fuori dalla
crisi.
Dunque: Monti non è solo il male
minore. Abbiamo buoni motivi per fidarci di lui. Ne sono prova il
lavoro svolto in Europa, la sua lucidità, la sua esperienza, la sua
saggezza.
Da lui ci aspettiamo molto. Ci
aspettiamo che mantenga la promessa contenuta nella terza delle
parole sopra ricordate: l’equità. L’equità non si fonda
su assiomi o su scelte di campo, non sta in nessun programma.
L’equità sta nel fare per noi ciò che non abbiamo saputo fino ad
ora fare: guardare al bene comune, oltre ogni privato e personale e
immediato interesse. L’equità sta in un progetto perseguito
giorno dopo giorno, passo dopo passo, nel pubblico confronto e nel
rispetto dell’altro. Questo è il ruolo del manager, questo ci
aspettiamo da Monti.
Perciò dobbiamo sperare che Monti si
mantenga lontano da ogni appartenenza e dalla sua stessa scuola e dal
suo stesso passato. Speriamo si dimostri saggio, indipendente, fermo
e dialogante. Speriamo sia il meno possibile bocconiano.
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