Ho ritrovato uno scritto del 1999.
Lì citavo Balzac e la sua Parigi e il suo tempo. In particolar modo, credo, avevo in mente Illusions perdues (1843).
Scrivevo:
La società è una palestra di interessi economici: tutti vi siamo implicati, si vale solo se si riesce ad imporsi. "Il successo è divenuto il principio supremo di un'epoca atea", il sigillo dei tempi nuovi, sia in industria che in economia arte e spirito. Si assiste al "dilagare della finanza". Non è più possibile distinguere un commerciante da un pari di Francia; il nuovo titolo di nobiltà nella della società moderna è l'essere "il più tassato di tutto il circondario". Politica amore e arte sono diretti dal denaro. La produzione in serie distrugge il valore artistico e artigianale del lavoro: "nous avons des produits, nous n'avons plus d'oeuvres". Non conta più "l'energia isolata, ricca di creazioni originali", conta invece "l'energia uniforme, ma livellatrice, che parifica i prodotti, li produce in massa, obbedendo a una idea unitaria".
In Contro il Management cito Zola, L’Argent (1891). Sono passati cinquant'anni, lo scenario si è evoluto, ma gli elementi di fondo del quadro non è cambiato. La pressione della finanza è sempre più evidente.
La Borsa -già intesa nel 1808 da Napoleone, quando pose la prima pietra del palazzo che doveva ospitarla, come "le thermomètre de la confiance publique"- è l'ombelico del mondo fondato sulla finanza.
Si completa il disegno già descritto da Balzac, un disegno sociale economico, ma anche di pianificazione urbanistica e territoriale. Le fabbriche stanno in periferia, in provincia. Il centro della metropoli, invece, si identifica con la finanza, ed il suo luogo simbolico: la Borsa. Ecco la Parigi di Napoleone III nel 1867, alla vigilia dell'Exposition Universelle, freneticamente attiva, assordata dal rumore dei cantieri aperti dal prefetto Haussmann, che sventra la città e la rimodella come moderno salotto di boulevard e gallerie commerciali. E al centro, qui, come in quegli stessi anni a Londra e a New York, la Borsa.
La speculazione finanziaria si sostituisce al lavoro. Rappresenta in forma semplificata ed estrema “l'eterno desiderio che spinge a lottare e a vivere”. “Un grande sogno, da un soldo ricavarne cento”.
Zola, nel romanzo L'Argent, ci descrive meglio di qualsiasi economista, di qualsiasi storico o sociologo il significato sociale di questo luogo: frastuono spaventoso, continuo gesticolare degli agenti, “danzante mimica dei corpi, quasi pronti a divorarsi reciprocamente”, trionfi, crolli, speranze, duri dati di realtà. Aristide Saccard, protagonista romanzo “è veramente il poeta del milione”. “I suoi figli, le sue donne, insomma tutto ciò che lo circonda, viene per lui dopo il denaro”.
“Non era forse, il denaro, e soltanto il denaro, la forza che può spianare una montagna, colmare un braccio di mare, rendere la terra finalmente abitabile per gli uomini, liberati dal giogo del lavoro che abbruttisce, facendoli diventare conduttori di macchine?”.
Come sostengo in altri miei libri, e anche in Contro il management, nessun sociologo, nessuno storico, nessuno studioso di discipline economiche e aziendalistiche sa descrivere il mondo della fianza e dell'impresa come sanno fare i romanzieri. Quindi, anche se non mi viene in mente al momento nessun romanzo contemporaneo comparabile con Le illusioni perdute e Denaro, credo che né Balzac ne Zola siano eccezioni.
Quello che è certo è che il materiale romanzesco non manca.
Bastano due esempi.
Il primo: una notizia apparsa di recente sulla stampa parla del nuovo investimento della Deutsche Bank. Cito da Repubblica del 17 dicembre 2010: la Deutsche Bank, la più forte, moderna e globale banca d' affari tedesca, ha appena aperto un gigantesco casinò di superlusso, con annesso hotel, a Las Vegas. The Cosmopolitan, si chiama la nuova super-casa da gioco voluta dai signori della finanza di Francoforte.
Hanno investito 4 miliardi di dollari per realizzare l' enorme grattacielo, un nuovo simbolo della metropoli del gioco d' azzardo. Ben 83 tavoli da gioco, 1474 slot machines di ogni genere,e tremila tra cameree suites. Deutsche Bank si mostra come sempre sicura di aver fatto centro: alla fine, tra i tanti giocatori d' azzardo che saranno suoi ospiti, qualcuno vincerà alla roulette, al poker o alle slot machines, ma alla fine i grandi profitti li realizzerà il colosso finanziario. La certezza di non aver sbagliato è tanta che gli spot pubblicitari per l' apertura mostrano signore mature che ballano con bei giovanotti tastando loro il posteriore, o commensali attorno a specie di triclini. "Just the right amount of wrong", solo la dose giusta di errore e trasgressione, è lo slogan.
I maligni hanno gioco facile a paragonare il comportamento delle banche nella crisi internazionale con il gioco d' azzardo: hanno guadagnato scommettendo su crolli azionari o successi di film, hanno lanciato molti prodotti di cui solo pochi garantivano soldi. Come appunto in un casinò. Ma Las Vegas ha conosciuto anche bancarotte: nel 2007 fallì la investment bank Bear Stearns, e trascinò nel crollo la Fontainebleau, che gestiva una delle maggiori case. Carl Icahn la rilevò dai curatori fallimentari per "appena" 150 milioni di dollari. In tanti modi, dopo il faites votre jeu può arrivare il rien ne va plus.
Il secondo esempio è dell'autunno 2009. Un titolo sul Sole 24 ore recita: “Da ingegnere della finanza a mago del poker online”. La crisi della finanza, di un certo modo di fare finanza, è coincisa con il boom del poker. E' possibile, credo, cogliere connessioni tra i due trend.
Potremmo dire che non c'è soluzione di continuità tra il trading on line e il giocare a poker. In entrambi i casi, si scommette il denaro sulla capacità di intercettare situazioni emergenti. Una discontinuità sta semmai nel fatto che chi fa trading on line può mettere in gioco denaro proprio, ma anche denaro altrui che gli è stato affidato in gestione. Mentre se gioco a poker, metto in gioco denaro vero o virtuale, ma sempre denaro di mia proprietà.
Non c'è da meravigliarsi che persone espulse per un verso dal mercato del lavoro, rientrino in scena su un mercato parallelo che premia le stesse attitudini e le stesse abilità: gestione del rischio rapidità di decisione, lettura dei segnali deboli, consuetudine con l'intangibile.
Ma si può anche allargare il discorso. Si può ragionevolmente dire, senza che l'analogia appaia forzata, che un certo deleterio modo di intendere e di imporre al mondo la finanza che oggi domina il mondo è giocare a poker. Giocare a poker con il denaro altrui.
Il denaro affidato alle istituzioni finanziarie, è presto spogliato di informazioni relative alla fonte, è presto spogliato dagli indirizzi che colui che mi ha affidato il suo denaro aveva in mente. Lo spazio aperto alle intenzioni di coloro che forniscono il denaro è ben delimitato. L'asimmetria di potere e di informazioni permette alla finanza di fare ciò che vuole.
L'analogia con il poker, mi pare, mette in luce l'essenza della finanza degenerata che abbiamo sotto gli occhi. Così come il poker, la finanza si fonda sul bluff. To brag, boast, to baffle, mislead. Vantarsi, millantare, confondere, trarre in inganno. A qualsiasi valore costruito lavorando, si sostituisce il valore apparente millantato al tavolo da gioco. Il più abile, il vincitore, è chi è più capace a vendere fumo e ad ingannare. Difficile concepire qualcosa di più riprovevole da un punto di vista etico.
mercoledì 29 dicembre 2010
mercoledì 15 dicembre 2010
Quello che i manager non dicono
Un manager mi scrive: “Francesco, Contro il Management è una lettura interessante ed appassionante. Ti ringrazio per gli spunti che dai e per la profondità di pensiero che porti”.
Altri manager che conosco altrettanto bene, e che ugualmente stimo, accettano di partecipare a pubblici incontri sui temi che tratto nel libro: l’incombenza della finanza, la caduta dei valori, la rinuncia a ‘dirigere’, la prevalenza degli interessi personali, il sostanziale disinteresse per il lavoro, per la produzione. Capita che si scambi qualche riflessione prima o dopo le parole dette in pubblico. In questi momenti, tutti parlano del pessimo clima circostante, del malessere, dell’ingiustizia diffusa, di tutto ciò che si è costretti a vedere, a subire.
Ma poi, in pubblico, anche quando il pubblico è una stretta platea di persone come noi, scatta l’autocensura, e vedo che tutto sfuma nell’eufemismo, nell’attenuazione, nella cautela. E allora sento dire che sì, forse i casi di cui parlo accadono in qualche situazione estrema, ma non sono certo diffusi, e comunque non certo nell’azienda dove io lavoro. Sento dire che forse questo accadeva anni fa, ma non ora. Sento dire che nelle medie e piccole imprese un certo tipo di manager che dipingo non c’è proprio. Sento dire che semmai questa immagine del manager fosse vera, riguarderebbe pochissimi Chief Executive di grandi aziende quotate in borsa. Sento dire che certi eccessi, che forse ci sono stati, non possono più presentarsi, perché la Rete obbliga alla trasparenza.
Veder usare Wikileaks come vincolo tale da indurre i manager a comportamenti meno lontani dall’etica, dà la misura del paradosso. I manager, come i politici, combattono la trasparenza informativa come la peste. Salvo poi appellarsi alla trasparenza informativa quando questa serve a negare l’evidenza.
Capisco questi amici. Non possono sbilanciarsi in pubblico. O almeno credono di non poterlo fare. A tratti, ascoltandoli, mi sorgono dubbi. Ho esagerato? Sono stato miope o fazioso? Non credo. Penso di aver scritto a nome loro, dicendo niente di più di quello che questi stessi amici manager in privato dicono.
A consolazione degli amici manager, posso dire dei professori. Un noto accademico, docente di strategia e direttore di master, è intervenuto a una tavola rotonda cui partecipavo anch’io. In pubblico non si è discostato da una difesa d’ufficio del consolidato modello formativo dei master in Business Administration. Master che sono il luogo dove si riproduce il vano sapere manageriale.Difesa che mi è parsa stanca e poco convinta. E’ naturalmente rimasta senza risposta la domanda chiave: come può andar bene un ‘modello unico’ di management. Come può andar bene in genere, di fronte alle differenze culturali; e come può andar bene nello specifico, di fronte ai bisogni del sistema socio-economico dell’Italia di oggi, fatto soprattutto di medie e piccole imprese.
Ma non è questo che mi ha inquietato. Mi ha inquietato quello che ho sentito dire al professore in privato, lontano dal tavolo dei relatori. Lui stesso, che è professore di strategia, non sa darsi risposte. Non sa in che direzione guardare. Non sa che strada prendere, e che strada indicare a chi, confidente nel suo ruolo, gli chiede lumi.
Capisco che il momento è difficile. Ma se siamo classe dirigente, qualche responsabilità dobbiamo pur prendercela. Cominciare guardandoci in faccia, e riconoscendo quello che non va, dicendolo in pubblico e scrivendolo, mi pare, in mancanza di meglio, un buon punto di partenza.
Altri manager che conosco altrettanto bene, e che ugualmente stimo, accettano di partecipare a pubblici incontri sui temi che tratto nel libro: l’incombenza della finanza, la caduta dei valori, la rinuncia a ‘dirigere’, la prevalenza degli interessi personali, il sostanziale disinteresse per il lavoro, per la produzione. Capita che si scambi qualche riflessione prima o dopo le parole dette in pubblico. In questi momenti, tutti parlano del pessimo clima circostante, del malessere, dell’ingiustizia diffusa, di tutto ciò che si è costretti a vedere, a subire.
Ma poi, in pubblico, anche quando il pubblico è una stretta platea di persone come noi, scatta l’autocensura, e vedo che tutto sfuma nell’eufemismo, nell’attenuazione, nella cautela. E allora sento dire che sì, forse i casi di cui parlo accadono in qualche situazione estrema, ma non sono certo diffusi, e comunque non certo nell’azienda dove io lavoro. Sento dire che forse questo accadeva anni fa, ma non ora. Sento dire che nelle medie e piccole imprese un certo tipo di manager che dipingo non c’è proprio. Sento dire che semmai questa immagine del manager fosse vera, riguarderebbe pochissimi Chief Executive di grandi aziende quotate in borsa. Sento dire che certi eccessi, che forse ci sono stati, non possono più presentarsi, perché la Rete obbliga alla trasparenza.
Veder usare Wikileaks come vincolo tale da indurre i manager a comportamenti meno lontani dall’etica, dà la misura del paradosso. I manager, come i politici, combattono la trasparenza informativa come la peste. Salvo poi appellarsi alla trasparenza informativa quando questa serve a negare l’evidenza.
Capisco questi amici. Non possono sbilanciarsi in pubblico. O almeno credono di non poterlo fare. A tratti, ascoltandoli, mi sorgono dubbi. Ho esagerato? Sono stato miope o fazioso? Non credo. Penso di aver scritto a nome loro, dicendo niente di più di quello che questi stessi amici manager in privato dicono.
A consolazione degli amici manager, posso dire dei professori. Un noto accademico, docente di strategia e direttore di master, è intervenuto a una tavola rotonda cui partecipavo anch’io. In pubblico non si è discostato da una difesa d’ufficio del consolidato modello formativo dei master in Business Administration. Master che sono il luogo dove si riproduce il vano sapere manageriale.Difesa che mi è parsa stanca e poco convinta. E’ naturalmente rimasta senza risposta la domanda chiave: come può andar bene un ‘modello unico’ di management. Come può andar bene in genere, di fronte alle differenze culturali; e come può andar bene nello specifico, di fronte ai bisogni del sistema socio-economico dell’Italia di oggi, fatto soprattutto di medie e piccole imprese.
Ma non è questo che mi ha inquietato. Mi ha inquietato quello che ho sentito dire al professore in privato, lontano dal tavolo dei relatori. Lui stesso, che è professore di strategia, non sa darsi risposte. Non sa in che direzione guardare. Non sa che strada prendere, e che strada indicare a chi, confidente nel suo ruolo, gli chiede lumi.
Capisco che il momento è difficile. Ma se siamo classe dirigente, qualche responsabilità dobbiamo pur prendercela. Cominciare guardandoci in faccia, e riconoscendo quello che non va, dicendolo in pubblico e scrivendolo, mi pare, in mancanza di meglio, un buon punto di partenza.
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mercoledì 8 dicembre 2010
Contro il management: scheda di sintesi e Introduzione
Una recensione del libro è apparsa lunedì 6 dicembre 2010 sul quotidiano on-line 'Affari Italiani', nella rubrica 'Rigoletto', a firma di Angelo de' Cherubini. Potete leggere qui.
Nessuna parola inutile. Il recensore mi lascia parola. Non posso pretendere di più. Considero presentazioni come questa particolarmente utili per avvicinare al libro lettori.
Nessuna parola inutile. Il recensore mi lascia parola. Non posso pretendere di più. Considero presentazioni come questa particolarmente utili per avvicinare al libro lettori.
martedì 7 dicembre 2010
sabato 20 novembre 2010
Una lettera al giornale
L'intervista sulla Stampa di lunedì 15 novembre 2010 ha motivato una lettera al quotidiano.
L'autore si qualifica comee "dirigente industriale in pensione". Fa sapere di aver letto "con estremo disagio" l'intervista. Parla a nome dei 500 associati biellesi a Federmanager e assicura che nessuno di loro "è un maneggione, sta lontano dalla fabbrica, vive e guarda altrove". Ma anzi, dice, ognuno "è sempre impegnato a portare avanti la sua missione che lo costringe a orari impossibili, con la mente impegnata anche quando torna a casa alla sera, per prevedere e fronteggiare le mosse della concorrenza e non per badare in prima battuta al proprio interesse".
Non ne dubitavo. Ho scritto il libro cercando proprio di portare sulla scena le ragioni di questi meritevoli dirigenti, la cui immagine è oscurata dall'atteggiamento dei manager 'alla moda', 'fatti con lo stampino', asserviti agli interessi della finanza, attenti innanzitutto alla propria carriera.
Non a caso l'autore della lettera non si riconosce nel ruolo del 'manager': preferisco essere chiamato Dirigente industriale. Una categoria che, dice giustamente l'autore della lettera, "chiede rispetto".
Avendo trovato il suo indirizzo su Internet, scrivo all'autore della lettera. Glis crivo una lettera, con busta e francobollo, come si faceva una volta, per ringraziarlo della sua indignazione, che è anche mia.
L'autore si qualifica comee "dirigente industriale in pensione". Fa sapere di aver letto "con estremo disagio" l'intervista. Parla a nome dei 500 associati biellesi a Federmanager e assicura che nessuno di loro "è un maneggione, sta lontano dalla fabbrica, vive e guarda altrove". Ma anzi, dice, ognuno "è sempre impegnato a portare avanti la sua missione che lo costringe a orari impossibili, con la mente impegnata anche quando torna a casa alla sera, per prevedere e fronteggiare le mosse della concorrenza e non per badare in prima battuta al proprio interesse".
Non ne dubitavo. Ho scritto il libro cercando proprio di portare sulla scena le ragioni di questi meritevoli dirigenti, la cui immagine è oscurata dall'atteggiamento dei manager 'alla moda', 'fatti con lo stampino', asserviti agli interessi della finanza, attenti innanzitutto alla propria carriera.
Non a caso l'autore della lettera non si riconosce nel ruolo del 'manager': preferisco essere chiamato Dirigente industriale. Una categoria che, dice giustamente l'autore della lettera, "chiede rispetto".
Avendo trovato il suo indirizzo su Internet, scrivo all'autore della lettera. Glis crivo una lettera, con busta e francobollo, come si faceva una volta, per ringraziarlo della sua indignazione, che è anche mia.
Presentazione a Torino presso il Club della Comunicazione d'Impresa dell'Unione Industriale, 24 novembre 2010
E' utile chiededersi come il ruolo del manageer è narrato tramite i mezzi di comunicazione.
Perciò tengo particolarmente a questa presentazione.
Perciò tengo particolarmente a questa presentazione.
venerdì 19 novembre 2010
Presentazione a Milano, 16 novembre 2010, Ovvero: il manager tra le meduse
Più che una presentazione, un incontro a più voci, organizzato dall'Italian Project Management Academy.
Si è preso spunto, insieme, dal mio libro, e del libro di Francesco Perillo, L'insostentibile leggerezza del management (Guerini e Associati, 2010).
Il titolo dell'incontro recitava: Project Manager, prima di tutto Manager. Ma io penso che il titolo avrebbe potuto essere rovesciato: Manager, prima di tutto Project Manager, perché credo che il manager del futuro debba prendere ad esempio il Project Manager, legato a uno scopo, obbligato a progettare il futuro. Il manager, invece, credo che troppa facilmente possa rifugiarsi nella mera gestione, priva di connessioni con uno scopo.
Curioso per me notare che sia Roberto Mori, Vice Presidente IPMA International, sia Emilio Bartezzaghi, Ordinario di Gestione aziendale al Politecnico di Milano, si sono soffermati su una metafora -'il manager tra le meduse', che in Contro il management occupa non più di due pagine.
Ma, pensadoci, anch'io la considero un luogo importante del libro. E poi -è giusto ricordarlo- le narrazioni autobiografiche sono sempre importanti. Anche quando si parla di management.
Trovate qui una versione della narrazione.
Si è preso spunto, insieme, dal mio libro, e del libro di Francesco Perillo, L'insostentibile leggerezza del management (Guerini e Associati, 2010).
Il titolo dell'incontro recitava: Project Manager, prima di tutto Manager. Ma io penso che il titolo avrebbe potuto essere rovesciato: Manager, prima di tutto Project Manager, perché credo che il manager del futuro debba prendere ad esempio il Project Manager, legato a uno scopo, obbligato a progettare il futuro. Il manager, invece, credo che troppa facilmente possa rifugiarsi nella mera gestione, priva di connessioni con uno scopo.
Curioso per me notare che sia Roberto Mori, Vice Presidente IPMA International, sia Emilio Bartezzaghi, Ordinario di Gestione aziendale al Politecnico di Milano, si sono soffermati su una metafora -'il manager tra le meduse', che in Contro il management occupa non più di due pagine.
Ma, pensadoci, anch'io la considero un luogo importante del libro. E poi -è giusto ricordarlo- le narrazioni autobiografiche sono sempre importanti. Anche quando si parla di management.
Trovate qui una versione della narrazione.
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lunedì 15 novembre 2010
Succubi della finanza i manager in declino
E' apparsa oggi una mia intervista sulla Stampa. L'intervistatore -si firma W.P., ma penso di poter dire che si tratta di Walter Passerini- presenta il libro con queste parole: "Un grido di dolore contro il management, uno straordinario senso di indignazione nei confronti di una figura professionale spesso mitizzata ma oggi in declino, tutta da ricostruire. Francesco Varanini è un indignato speciale, che dopo una vita di lavoro e di alte responsabilità dentro grandi e piccole aziende ora si toglie qualche sassolino dalle scarpe con amore e passione per il suo mestiere".
Potete leggere l'intervista qui.
Potete leggere l'intervista qui.
sabato 30 ottobre 2010
Una denuncia per evitare il peggio
"Ogni denuncia è in fondo una lotta disperata per evitare il peggio", scrive il recensore su IGN, il portale del Gruppo AdnKronos.
Sì, proprio questo intendevo scrivendo questo libro.
Forse questa è una mia cifra. Riscrivere cose che altri hanno già scritto, citare ritualmente fondi, rifarsi alle solite autorità, non serve a nulla. Può servire a qualcosa, invece, scrivere partendo da un proprio punto di vista, da ciò che si sa per personale espeerienza. Può servire scrivere con la speranza di portare alla luce la voce di chi è normalmente escluso dalla comunità dei soliti noti scriventi per professione, scriventi al servizio di chi ha da difendere posizione di potere.
Ai tanti, troppi libri sul management, credo, ha senso aggiungere solo una riflessione aggressiva. Perché la connivenza offre magari comode nicchie nel breve termine, ma è vana si dal punto di vista della costruzione di un futuro personale, sia -più n generale- da un punto di vista politico. L'accettare situazioni che sapppiamo insoddisfacenti non ci porta da nessuna parte. Più utile dire le cose, fin dove si è capaci, con chiarezza e senza peli sulla lingua.
Ridò la parola al recensore: "tra le molte caste, Varanini va a scrutarne una che ancora gode di buona stampa e buona reputazione: il manager". Il manager appare più meritevole di altre screditate fette della casta: il politico di professione è il primo esempio.
Il manager è presentato all'opinione pubblica come colui che salva grandi gruppi industriali, tutela posti di lavoro, incrementa le vendite e l'economia di un paese.
"Un ritratto di merito che Francesco Varanini scardina punto per punto nel suo libro, consegnandoci un ritratto contemporaneo di questi professionisti di aziende e di amministrazioni pubbliche molto disincantato: controllori e controllati, speculatori finanziari, gestori di traffici e conniventi con l'ultima pesante crisi economica. 'Il manager - scrive Varanini - non è chiamato ad ottenere risultati visibili dal punto di vista dell'azienda, il manager è chiamato ad ottenere risultati visibili nelle chiavi di lettura che il mercato finanziario sceglie per il proprio interesse e impone al mondo. Il manager è chiamato a soddisfare aspettative esterne, disegni nati altrove'".
Sì, proprio questo intendevo scrivendo questo libro.
Forse questa è una mia cifra. Riscrivere cose che altri hanno già scritto, citare ritualmente fondi, rifarsi alle solite autorità, non serve a nulla. Può servire a qualcosa, invece, scrivere partendo da un proprio punto di vista, da ciò che si sa per personale espeerienza. Può servire scrivere con la speranza di portare alla luce la voce di chi è normalmente escluso dalla comunità dei soliti noti scriventi per professione, scriventi al servizio di chi ha da difendere posizione di potere.
Ai tanti, troppi libri sul management, credo, ha senso aggiungere solo una riflessione aggressiva. Perché la connivenza offre magari comode nicchie nel breve termine, ma è vana si dal punto di vista della costruzione di un futuro personale, sia -più n generale- da un punto di vista politico. L'accettare situazioni che sapppiamo insoddisfacenti non ci porta da nessuna parte. Più utile dire le cose, fin dove si è capaci, con chiarezza e senza peli sulla lingua.
Ridò la parola al recensore: "tra le molte caste, Varanini va a scrutarne una che ancora gode di buona stampa e buona reputazione: il manager". Il manager appare più meritevole di altre screditate fette della casta: il politico di professione è il primo esempio.
Il manager è presentato all'opinione pubblica come colui che salva grandi gruppi industriali, tutela posti di lavoro, incrementa le vendite e l'economia di un paese.
"Un ritratto di merito che Francesco Varanini scardina punto per punto nel suo libro, consegnandoci un ritratto contemporaneo di questi professionisti di aziende e di amministrazioni pubbliche molto disincantato: controllori e controllati, speculatori finanziari, gestori di traffici e conniventi con l'ultima pesante crisi economica. 'Il manager - scrive Varanini - non è chiamato ad ottenere risultati visibili dal punto di vista dell'azienda, il manager è chiamato ad ottenere risultati visibili nelle chiavi di lettura che il mercato finanziario sceglie per il proprio interesse e impone al mondo. Il manager è chiamato a soddisfare aspettative esterne, disegni nati altrove'".
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Recensioni
mercoledì 27 ottobre 2010
Presentazione a Bologna, 29 settembre 2010
Mercoledì 29 settembre 2010, ore 17,30
Edificio Direzionale di Poste Italiane
Via Zanardi 28, Bologna
In occasione del dibattito sul tema
Il futuro del manager: atteggiamenti e competenze di domani
presentazione dei volumi
Microsoluzioni. Piccole storie esemplari di vita d'azienda
di Isabella Covili Faggioli
Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune
di Francesco Varanini
editi da Guerini e Associati
discutono con gli autori:
Alessandro Bugiardini
Direttore del personale dell'area Centro Nord di Poste Italiane
Mauro Sirani Fornasini
AD di Intertaba
Gianfranco Dioguardi: il piacere di essere letti
Non c'è da vergognarsi a dire -da scrittore- che piace essere letti. Non solo citati, ma veramente letti da lettori autorevoli, in grado di spiegare allo stesso autore qualcosa che è implicito nel suo testo, ma di cui non aveva chiara consapevolezza.
E' la sensazione che provo leggendo questo commento al mio libro di Gianfranco Dioguardi.
Mi ritrovo nella sua sintesi delle tesi che cerco di esporre. Ma anche quando sottolinea una mia frase apparentemente marginale: "sui banchetti di libri usati si trovano spesso impagabili perle".
Perché ognuno di noi è allo stesso tempo più persone. Se non fossi anche uno scrittore che scrive d'altro -di cultura e letteratura ispanoamericana, per esempio- non avrei lo sguardo abbastanza libero, non potrei guardare 'da fuori' il mondo del management.
E' la sensazione che provo leggendo questo commento al mio libro di Gianfranco Dioguardi.
Mi ritrovo nella sua sintesi delle tesi che cerco di esporre. Ma anche quando sottolinea una mia frase apparentemente marginale: "sui banchetti di libri usati si trovano spesso impagabili perle".
Perché ognuno di noi è allo stesso tempo più persone. Se non fossi anche uno scrittore che scrive d'altro -di cultura e letteratura ispanoamericana, per esempio- non avrei lo sguardo abbastanza libero, non potrei guardare 'da fuori' il mondo del management.
domenica 26 settembre 2010
Adriano Olivetti, Sergio Marchionne, Kitarō Nishida: perché le automobili Fiat sono brutte
Il 22 settembre 2010 ho partecipato, a Parma, presso l'Unione Parmense degli Industriali, Palazzo Soragna, al convegno Il valore dell'etica e dell'estetica nell'agire d'impresa. Si tratta della seconda tappa del percorso Adriano Olivetti Uno organizzato, con l'associazione Vita Eudaimonica, da Alberto Peretti.
A seguito del più teorico intervento del filosofo Aldo Natoli -il problema dei filosofi che parlano di lavoro e di organizzazione e di azienda, è che non hanno mai vito da vicino una fabbrica, un'azienda-, ho parlato sul tema: Estetica e Globalizzazione. Luogh, non luoghi e scelte del management.
Leggo in un articolo di Antonella Del Gesso apparso sulla Gazzetta di Parma:
«Oggi c'è una totale lacerazione tra impresa e territorio», commenta filosofo Salvatore Natoli. «E' questo il principio su cui si basa la finanza: immaginare di poter produrre a prescindere dall’esistenza di un luogo fisico. E i risultati di questa politica si sono visti», aggiunge il consulente e formatore Francesco Varanini.
Non preparo mai come tesi finiti gli interventi a convegni, o le conferenze, perché preferisco scoprire il discorso che emerge nella situazione, in quel momento, in relazione con gli astanti e con ciò che dicono gli altri relatori.
In questo caso però mi è capitato di scrivere un testo compiuto sul tema che mi era stato assegnato. Mentre scrivevo, mi è apparso come titolo più adeguato Le automobili Fiat sono così brutte perché Marchonne guadagna troppo.
La ragione del titolo sta nel paragrafo che trascrivo qui sotto.
Anche i competitori globali della Fiat sono costretti ad operare su un mercato dominato dalla finanza. Ma evidentemente a loro la qualità e il valore dell'automobile, il bello e il buono interessano di più. Se non fosse così, non sarebbe così evidente la differenza tra un'automobile tedesca e un'automobile italiana.
Possiamo, a ragion veduta, dire che, da un punto di vista etico, Marchionne guadagna troppo, visto le brutte automobili che la Fiat produce. Ma possiamo, a maggior motivo, dire che la Fiat fa brutte automobili perché Marchionne guadagna troppo.
Quando c'era Valletta le automobili della Fiat erano più belle, più ricche di valore percepito da lavoratori e da clienti. Valletta guadagnava venti volte più di un operaio della Fiat. Non era troppo lontano. Riusciva a capire, gli interessava capire, come pensa e come vive un operaio. Dedicava tempo all'organizzazione del lavoro, della produzione. La sua retribuzione dipendeva dal consenso dei sindacati, era dunque consapevolmente pagato anche dagli operai. E al contempo era pagato da chi comprava automobili Fiat. Considerava importante l'opinione dei clienti, degli automobilisti.
Marchionne guadagna quattrocento volte quanto guadagna un operaio. E' troppo lontano da operai e clienti. Non ha tempo per loro. Non gli interessa capire come pensa e come vive un operaio, né come coltivare e portare a valore le conoscenze dell'operaio. Dedica tempo innanzitutto agli investitori finanziari. Il suo scopo non è, in realtà, vendere o produrre automobili. Il suo scopo è rispondere alle aspettative del mercato finanziario. E' pagato non da operai e da clienti, ma da rentier -famiglia Agnelli, investitori di borsa, banche, operatori del mercato finanziario: banche, società di rating- in fondo come lui disinteressati alle automobili.
Agli investitori finanziari, ai percettori di reddito legato al valore di borsa -tra cui sta anche la famiglia Agnelli, e sta lo stesso Marchionne- importa ben poco dove sono prodotte le automobili, importa ben poco come sono prodotte le automobili. Importa ben poco produrre automobili che siano giudicate buone dai clienti. Importa solo che, con artifici contabilità o di comunicazione, il titolo faccia bella figura in borsa.
Il fatto che la Fiat di Marchionne produca automobili non è che un accidente, una infausta coincidenza. Si potrebbe anzi dire che Marchionne ha motivo di disprezzare per le automobili. Ha motivo di essere indispettito perché il comparto produttivo automotive è meno redditizio dal punto di vista finanziario di altri comparti, come elettronica, o energia.
Ho pubblicato questo testo nella sua versione completa qui. Partendo da Adriano Olivetti e dal suo ritener importante il luogo di produzione, si arriva, dal mio punto di vista al concetto di basho del filosofo giapponese Kitarō Nishida.
Ci appare evidente che Nishida ci fa apparire grossolano e ipocrita l'ideologia marchionnesca.
Basho: dove, ubicazione, posto, topos, terra, focolare, base materiale e allo stesso tempo spirituale. Non radici alle quali siamo vincolati, ma luogo che abitiamo.
Non ci può essere produzione, non ci può essere etica ed estetica, non c'è bello, né bene, né buono se non c'è basho.
L'esperienza che in ogni istante stiamo vivendo si situa in un qui. Solo se c'è basho c'è impresa e organizzazione che le persone possono intendere come dotata di senso.
A seguito del più teorico intervento del filosofo Aldo Natoli -il problema dei filosofi che parlano di lavoro e di organizzazione e di azienda, è che non hanno mai vito da vicino una fabbrica, un'azienda-, ho parlato sul tema: Estetica e Globalizzazione. Luogh, non luoghi e scelte del management.
Leggo in un articolo di Antonella Del Gesso apparso sulla Gazzetta di Parma:
«Oggi c'è una totale lacerazione tra impresa e territorio», commenta filosofo Salvatore Natoli. «E' questo il principio su cui si basa la finanza: immaginare di poter produrre a prescindere dall’esistenza di un luogo fisico. E i risultati di questa politica si sono visti», aggiunge il consulente e formatore Francesco Varanini.
Non preparo mai come tesi finiti gli interventi a convegni, o le conferenze, perché preferisco scoprire il discorso che emerge nella situazione, in quel momento, in relazione con gli astanti e con ciò che dicono gli altri relatori.
In questo caso però mi è capitato di scrivere un testo compiuto sul tema che mi era stato assegnato. Mentre scrivevo, mi è apparso come titolo più adeguato Le automobili Fiat sono così brutte perché Marchonne guadagna troppo.
La ragione del titolo sta nel paragrafo che trascrivo qui sotto.
Anche i competitori globali della Fiat sono costretti ad operare su un mercato dominato dalla finanza. Ma evidentemente a loro la qualità e il valore dell'automobile, il bello e il buono interessano di più. Se non fosse così, non sarebbe così evidente la differenza tra un'automobile tedesca e un'automobile italiana.
Possiamo, a ragion veduta, dire che, da un punto di vista etico, Marchionne guadagna troppo, visto le brutte automobili che la Fiat produce. Ma possiamo, a maggior motivo, dire che la Fiat fa brutte automobili perché Marchionne guadagna troppo.
Quando c'era Valletta le automobili della Fiat erano più belle, più ricche di valore percepito da lavoratori e da clienti. Valletta guadagnava venti volte più di un operaio della Fiat. Non era troppo lontano. Riusciva a capire, gli interessava capire, come pensa e come vive un operaio. Dedicava tempo all'organizzazione del lavoro, della produzione. La sua retribuzione dipendeva dal consenso dei sindacati, era dunque consapevolmente pagato anche dagli operai. E al contempo era pagato da chi comprava automobili Fiat. Considerava importante l'opinione dei clienti, degli automobilisti.
Marchionne guadagna quattrocento volte quanto guadagna un operaio. E' troppo lontano da operai e clienti. Non ha tempo per loro. Non gli interessa capire come pensa e come vive un operaio, né come coltivare e portare a valore le conoscenze dell'operaio. Dedica tempo innanzitutto agli investitori finanziari. Il suo scopo non è, in realtà, vendere o produrre automobili. Il suo scopo è rispondere alle aspettative del mercato finanziario. E' pagato non da operai e da clienti, ma da rentier -famiglia Agnelli, investitori di borsa, banche, operatori del mercato finanziario: banche, società di rating- in fondo come lui disinteressati alle automobili.
Agli investitori finanziari, ai percettori di reddito legato al valore di borsa -tra cui sta anche la famiglia Agnelli, e sta lo stesso Marchionne- importa ben poco dove sono prodotte le automobili, importa ben poco come sono prodotte le automobili. Importa ben poco produrre automobili che siano giudicate buone dai clienti. Importa solo che, con artifici contabilità o di comunicazione, il titolo faccia bella figura in borsa.
Il fatto che la Fiat di Marchionne produca automobili non è che un accidente, una infausta coincidenza. Si potrebbe anzi dire che Marchionne ha motivo di disprezzare per le automobili. Ha motivo di essere indispettito perché il comparto produttivo automotive è meno redditizio dal punto di vista finanziario di altri comparti, come elettronica, o energia.
Ho pubblicato questo testo nella sua versione completa qui. Partendo da Adriano Olivetti e dal suo ritener importante il luogo di produzione, si arriva, dal mio punto di vista al concetto di basho del filosofo giapponese Kitarō Nishida.
Ci appare evidente che Nishida ci fa apparire grossolano e ipocrita l'ideologia marchionnesca.
Basho: dove, ubicazione, posto, topos, terra, focolare, base materiale e allo stesso tempo spirituale. Non radici alle quali siamo vincolati, ma luogo che abitiamo.
Non ci può essere produzione, non ci può essere etica ed estetica, non c'è bello, né bene, né buono se non c'è basho.
L'esperienza che in ogni istante stiamo vivendo si situa in un qui. Solo se c'è basho c'è impresa e organizzazione che le persone possono intendere come dotata di senso.
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martedì 21 settembre 2010
'Sviluppo & Organizzazione' e gli Studi critici sul management
"I critical studies di management si danno un ordine più sistematico; mentre vi è anche chi, come Francesco Varanini, si esprime in modo più radicale e polemico 'Contro il management". Così scrive Gianfranco Rebora nell'Editoriale che apre il numero 238 (maggio-giugno 2010) di Sviluppo & Organizzazione.
Non c'è da nascondersi dietro un dito, sono membro del Comitato Scientifico della rivista- che ora, con qualche differenza rispetto al passato, per merito di Gianfranco mostra una particolare attenzione per la vita concreta delle imprese e delle organizzazioni. Perché gli studi di management che parlano solo di precendenti studi di management finiscono per essere utili magari per le carriere accademiche, ma irrilevanti per chi non viva nell'accademia.
Così, Gianfranco mi ha chiesto di scrivermi da solo una scheda sui temi trattati nel mio libro. La scheda appare, nel suddetto numero di Sviluppo & Organizzazione, a p. 88, nel quadro di una rassegna bibliografica dedicata agli Studi critici sl management, a cura di Eliana Minelli.
Non c'è da nascondersi dietro un dito, sono membro del Comitato Scientifico della rivista- che ora, con qualche differenza rispetto al passato, per merito di Gianfranco mostra una particolare attenzione per la vita concreta delle imprese e delle organizzazioni. Perché gli studi di management che parlano solo di precendenti studi di management finiscono per essere utili magari per le carriere accademiche, ma irrilevanti per chi non viva nell'accademia.
Così, Gianfranco mi ha chiesto di scrivermi da solo una scheda sui temi trattati nel mio libro. La scheda appare, nel suddetto numero di Sviluppo & Organizzazione, a p. 88, nel quadro di una rassegna bibliografica dedicata agli Studi critici sl management, a cura di Eliana Minelli.
martedì 7 settembre 2010
I manager del disastro
Questa recensione di Giulia Giuliani è apparsa nel numero di agosto 2010 di Mondoperaio, storica rivista di area socialista. Spero che Luigi Covatta, Gennaro Acquaviva, Giovanni Bechelloni e tutti gli altri che conducono attualmente la rivista, si riconoscano ancora nella definizione 'area socialista', e non solo nel sottotitolo 'rivista fondata da Pietro Nenni. Il tempi cambiano, e anche le persone, ma mi pare ci sia in giro una tendenza a rimuovere, piuttosto che a ragionare su passato e presente.
La recensione mi pare proprio ben fatta. Apprezzo l'inizio, autobiografico. "Un'amica di ritorno dalle ferie trascorse in Sardegna proprio in questi giorni mi racconta la delusione provata nel venire a sapere che un maestoso vigneto con la sua storica e suggestiva cantina, che era andata a visitare, sono passati dalle mani degli originari proprietari isolani a un rinomato marchio a livello internazionale di bibite e di aperitivi. In luogo dell'impresa a prevalente conduzione familiare, con un forte radicamento alla terra e alle tradizioni del luogo. la gestione è oggi così affidata ad un'imponente azienda che possiede insediamenti produttivi dislocati in diverse parti del mondo".
Restare legati a ciò che ci dicono amiche e amici è un buon antidoto, forse una pratica indispensabile, se non vogliamo soccombere alle informazioni che ci propina normalmente la stampa, informazioni legate a interessi di lobby e spesso così lontane dalla realtà.
Le ragioni di una famiglia che sceglie di cedere l'impresa sono evidenti e comprensibili. Non si tratta di essere sempre e comunque contro le ragioni della finanza, contro la globalizzazione e l'internazionalizzazione. Si tratta, credo, però, di mantener viva la nostra capacità di pensare in modo 'controfattuale'. Siamo veramente sicuri che la resa a un certo modello economico dominato dalla finanza è inevitabile? C'è qualcuno che ha saputo e voluto continuare con l'impresa a conduzione familiare. E possiamo creare un contesto perché questa scelta risulti meno difficile.
La recensione mi pare proprio ben fatta. Apprezzo l'inizio, autobiografico. "Un'amica di ritorno dalle ferie trascorse in Sardegna proprio in questi giorni mi racconta la delusione provata nel venire a sapere che un maestoso vigneto con la sua storica e suggestiva cantina, che era andata a visitare, sono passati dalle mani degli originari proprietari isolani a un rinomato marchio a livello internazionale di bibite e di aperitivi. In luogo dell'impresa a prevalente conduzione familiare, con un forte radicamento alla terra e alle tradizioni del luogo. la gestione è oggi così affidata ad un'imponente azienda che possiede insediamenti produttivi dislocati in diverse parti del mondo".
Restare legati a ciò che ci dicono amiche e amici è un buon antidoto, forse una pratica indispensabile, se non vogliamo soccombere alle informazioni che ci propina normalmente la stampa, informazioni legate a interessi di lobby e spesso così lontane dalla realtà.
Le ragioni di una famiglia che sceglie di cedere l'impresa sono evidenti e comprensibili. Non si tratta di essere sempre e comunque contro le ragioni della finanza, contro la globalizzazione e l'internazionalizzazione. Si tratta, credo, però, di mantener viva la nostra capacità di pensare in modo 'controfattuale'. Siamo veramente sicuri che la resa a un certo modello economico dominato dalla finanza è inevitabile? C'è qualcuno che ha saputo e voluto continuare con l'impresa a conduzione familiare. E possiamo creare un contesto perché questa scelta risulti meno difficile.
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Gli inganni della finanza
Questa recensione di Fabio Ranucci è apparsa il 4 settembre 2010 su Conquiste del lavoro, quotidiano della CISL.
La rassegna del mio testo la trovo precisissima ed efficace.
Mi piacerebbe però che a partire dalle cose che scrivo -che non sono del resto che un riflesso di ragionamenti condivisi da molti- si innescasse una riflessione su come il sindacato si impegna realmente nel promuovere un coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione d'impresa.
Scrivo nel libro, nel paragrafo Stakeholder, svegliatevi:
"Vorrei per esempio vedere un sindacato che va oltre la difesa rituale di interessi costituiti, che va oltre la definizione di quadri normativi. Vorrei vedere un sindacato non più solo contropotere, ma invece potere: impegnato nella direzione aziendale, capace di imporre proprie metriche per misurare i risultati e di imporre criteri di ripartizione degli utili. Non ditemi che non si può fare. Prima che il sindacato si affermasse, chi aveva interessi da difendere aveva buon gioco a sostenere che nel panorama sociopolitico non ci sarebbe mai stato spazio per il sindacato."
La rassegna del mio testo la trovo precisissima ed efficace.
Mi piacerebbe però che a partire dalle cose che scrivo -che non sono del resto che un riflesso di ragionamenti condivisi da molti- si innescasse una riflessione su come il sindacato si impegna realmente nel promuovere un coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella direzione d'impresa.
Scrivo nel libro, nel paragrafo Stakeholder, svegliatevi:
"Vorrei per esempio vedere un sindacato che va oltre la difesa rituale di interessi costituiti, che va oltre la definizione di quadri normativi. Vorrei vedere un sindacato non più solo contropotere, ma invece potere: impegnato nella direzione aziendale, capace di imporre proprie metriche per misurare i risultati e di imporre criteri di ripartizione degli utili. Non ditemi che non si può fare. Prima che il sindacato si affermasse, chi aveva interessi da difendere aveva buon gioco a sostenere che nel panorama sociopolitico non ci sarebbe mai stato spazio per il sindacato."
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sabato 21 agosto 2010
Pars Construens: Chiasmo Biblico
Credo sia giusto, a partire dall’indignazione e dalla consapevolezza dell’ingiustizia, criticare il management. Questo ho fatto nella prima parte del libro. Ma ho cercato anche, in una seconda parte, di descrivere un modo di dirigere l’impresa fondato su sul rispetto di se stessi e la considerazione degli altri.
Come dico nel libro, si possono trovare tracce di questo atteggiamento -orientato alla guida, al governo e alla cura- in culture lontane, come il buddhismo. Ma anche in fonti più vicine a noi, alla nostra formazione e alla nostra cultura, come è il testo biblico.
Questo incrocio di quattro assi, quattro chiavi di lettura del mondo, quattro atteggiamenti -che credo compresenti, almeno in qualche misura, in ognuno di noi- l’ho in mente da tanto tempo. Mi ha fatto piacere riprenderlo qui, in questo libro tramite il quale faccio i conti con una non trascurabile porzione della mia vita.
Portare la propria croce
Il latino labor esprime l'idea di attività dura e penosa. Idea probabilmente ricavata dal verbo labare: 'vacillare sotto un peso'.
Anche il francese, lo spagnolo e portoghese (travail, trabajo, trabalho) ci parlano di sofferenza. Tripalium: strumento di tortura -tre pali, croce- al quale il reo è costretto. Così è qualsiasi lavoro.
Ogni persona al lavoro è chiamata a 'farsi carico'. Vive il suo calvario. Sopporta pesi, patisce ingiustizie. Sulle sue spalle grava il peso di una croce, quella stessa croce alla quale sarà inchiodato se le cose non andranno per il verso giusto.
Allo stesso tempo, la croce che ognuno porta, è il mezzo attraverso il quale gli altri saranno salvati.
Il comune obiettivo impone a ognuno di considerare propria la croce dell’altro. Così il ‘portare la propria croce’ si manifesta come servizio.
Il latino servum, ben prima dall'indicare lo 'schiavo', parlava di 'guardiano di greggi'. La radice indoeuropea swer- esprime un insieme di concetti di grande respiro: 'vedere', 'guardare', 'conservare'. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer-, il sanscrito varutá, 'protettore'; il greco horán ('vedere'); così come il latino observare: ob, ‘verso’ servare, ‘custodire’, con la duplice accezione di 'fare attenzione', 'adempiere', e di 'non togliere mai gli occhi di dosso'.
Il servizio è connesso alla visione, alla saggezza, alla conoscenza.
Come si legge nel capitolo 42 di Isaia (Isaia, 42, 2-4), a proposito del Servo di Javhé, possiamo pensare, al posto del manager, ad una persona che
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà.
Essere come Dio
Chi guida, governa, cura l'azienda è sostituto del Dio assente. Non può garantire che le aspettative dei diversi portatori di interessi siano soddisfatte. Ma può essere garante di un terreno comune, di uno spazio per l'ambizione.
Lontana dall'arroganza del manager, l’ambizione è desiderio vivo. Chiunque ben intende la natura dell'impresa, chi vive in azienda, desidera andare oltre i limiti di ciò che si vede, si confronta con l’ignoto, parla di ciò che non c’è ancora. E' portatore di speranza.
Nel caos della vita quotidiana dell'azienda, dove domina, nonostante tutti i piani ed i programmi, il massimo disordine, proprio lì è possibile cogliere le radici del mondo emergente. Le parole di chi guida, governa, cura l'azienda, così come le sue azioni, illuminano la scena, guardano senza timore il caos. Sciolgono il garbuglio e indirizzano il lavoro verso lo scopo. (Isaia 65, 17-18)
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare.
Costruire pietra su pietra
L'azienda è lenta e attenta costruzione. Costruire è lavorare con attenzione, consapevolezza dei dettagli.
Costruire è porre attenzione alla struttura: alle correlazioni, alle interdipendenze, alle connessioni.
Costruire pietra su pietra significa ricordare che l'azienda si costruisce innanzitutto mettendo le basi, partendo dalle fondamenta. (Isaia 28,16)
Ecco io pongo una pietra in Sion,
una pietra scelta,
angolare, preziosa, saldamente fondata:
chi crede non vacillerà.
Eppure chi guida, governa, cura l'azienda non può cercare una astratta perfezione. Dobbiamo costruire con le pietre che troviamo. Così, recuperando colonne di templi romani si costruivano le cattedrali romaniche. La migliore delle pietre possibili è quella che riesco ad avere a disposizione mentre lavoro. Su queste pietre ‘non ottime’ si fonda la costruzione che mi è dato di realizzare. (Salmo 118, 22)
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta testata d'angolo
Gettare il pane alle onde
Getta il pane alle onde, alla lunga lo ritroverai, dice Qohelet (Ecclesiaste 11, 1). La 'cultura orientale' alla quale mi ero avvicinato da lontano, in punta di piedi, guardando alla lezione buddista, è portata da Qohelet nel cuore della nostra 'cultura occidentale'.
L'azienda si guida, si governa, si cura dando prova, giorno dopo giorno, di confidenza e fiducia, di rispetto per se stessi e di considerazione per gli altri, di serenità d’animo. Lo scopo si avvicina mettendo da parte l’illusione e l’attaccamento ad ogni fonte di rassicurazione. (Ecclesiaste, 3, 1; Ecclesiaste, 4-7)
Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Non c’è nessuna ragione, nessun modello che può dirci quale è il ‘momento propizio’ per agire, per fare una o un’altra cosa. Né la ragione ci aiuta a leggere i segnali deboli, a cogliere il momento in cui si avvicina la tempesta.
Qohelet ci esorta a ‘lasciar vivere’ l'azienda, minimizzando i requisiti e limitando il controllo. Laa saggezza è più importante della ragione. La saggezza è moderazione, equilibrio, ed è conoscenza delle cose acquisita con l’esperienza.
Gettare il pane alle onde: accettare l'azienda che ‘si fa’, sorvegliare come si guarda il gregge, o il grano che cresce.
Come dico nel libro, si possono trovare tracce di questo atteggiamento -orientato alla guida, al governo e alla cura- in culture lontane, come il buddhismo. Ma anche in fonti più vicine a noi, alla nostra formazione e alla nostra cultura, come è il testo biblico.
Questo incrocio di quattro assi, quattro chiavi di lettura del mondo, quattro atteggiamenti -che credo compresenti, almeno in qualche misura, in ognuno di noi- l’ho in mente da tanto tempo. Mi ha fatto piacere riprenderlo qui, in questo libro tramite il quale faccio i conti con una non trascurabile porzione della mia vita.
Portare la propria croce
Il latino labor esprime l'idea di attività dura e penosa. Idea probabilmente ricavata dal verbo labare: 'vacillare sotto un peso'.
Anche il francese, lo spagnolo e portoghese (travail, trabajo, trabalho) ci parlano di sofferenza. Tripalium: strumento di tortura -tre pali, croce- al quale il reo è costretto. Così è qualsiasi lavoro.
Ogni persona al lavoro è chiamata a 'farsi carico'. Vive il suo calvario. Sopporta pesi, patisce ingiustizie. Sulle sue spalle grava il peso di una croce, quella stessa croce alla quale sarà inchiodato se le cose non andranno per il verso giusto.
Allo stesso tempo, la croce che ognuno porta, è il mezzo attraverso il quale gli altri saranno salvati.
Il comune obiettivo impone a ognuno di considerare propria la croce dell’altro. Così il ‘portare la propria croce’ si manifesta come servizio.
Il latino servum, ben prima dall'indicare lo 'schiavo', parlava di 'guardiano di greggi'. La radice indoeuropea swer- esprime un insieme di concetti di grande respiro: 'vedere', 'guardare', 'conservare'. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer-, il sanscrito varutá, 'protettore'; il greco horán ('vedere'); così come il latino observare: ob, ‘verso’ servare, ‘custodire’, con la duplice accezione di 'fare attenzione', 'adempiere', e di 'non togliere mai gli occhi di dosso'.
Il servizio è connesso alla visione, alla saggezza, alla conoscenza.
Come si legge nel capitolo 42 di Isaia (Isaia, 42, 2-4), a proposito del Servo di Javhé, possiamo pensare, al posto del manager, ad una persona che
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà.
Essere come Dio
Chi guida, governa, cura l'azienda è sostituto del Dio assente. Non può garantire che le aspettative dei diversi portatori di interessi siano soddisfatte. Ma può essere garante di un terreno comune, di uno spazio per l'ambizione.
Lontana dall'arroganza del manager, l’ambizione è desiderio vivo. Chiunque ben intende la natura dell'impresa, chi vive in azienda, desidera andare oltre i limiti di ciò che si vede, si confronta con l’ignoto, parla di ciò che non c’è ancora. E' portatore di speranza.
Nel caos della vita quotidiana dell'azienda, dove domina, nonostante tutti i piani ed i programmi, il massimo disordine, proprio lì è possibile cogliere le radici del mondo emergente. Le parole di chi guida, governa, cura l'azienda, così come le sue azioni, illuminano la scena, guardano senza timore il caos. Sciolgono il garbuglio e indirizzano il lavoro verso lo scopo. (Isaia 65, 17-18)
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare.
Costruire pietra su pietra
L'azienda è lenta e attenta costruzione. Costruire è lavorare con attenzione, consapevolezza dei dettagli.
Costruire è porre attenzione alla struttura: alle correlazioni, alle interdipendenze, alle connessioni.
Costruire pietra su pietra significa ricordare che l'azienda si costruisce innanzitutto mettendo le basi, partendo dalle fondamenta. (Isaia 28,16)
Ecco io pongo una pietra in Sion,
una pietra scelta,
angolare, preziosa, saldamente fondata:
chi crede non vacillerà.
Eppure chi guida, governa, cura l'azienda non può cercare una astratta perfezione. Dobbiamo costruire con le pietre che troviamo. Così, recuperando colonne di templi romani si costruivano le cattedrali romaniche. La migliore delle pietre possibili è quella che riesco ad avere a disposizione mentre lavoro. Su queste pietre ‘non ottime’ si fonda la costruzione che mi è dato di realizzare. (Salmo 118, 22)
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta testata d'angolo
Gettare il pane alle onde
Getta il pane alle onde, alla lunga lo ritroverai, dice Qohelet (Ecclesiaste 11, 1). La 'cultura orientale' alla quale mi ero avvicinato da lontano, in punta di piedi, guardando alla lezione buddista, è portata da Qohelet nel cuore della nostra 'cultura occidentale'.
L'azienda si guida, si governa, si cura dando prova, giorno dopo giorno, di confidenza e fiducia, di rispetto per se stessi e di considerazione per gli altri, di serenità d’animo. Lo scopo si avvicina mettendo da parte l’illusione e l’attaccamento ad ogni fonte di rassicurazione. (Ecclesiaste, 3, 1; Ecclesiaste, 4-7)
Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Non c’è nessuna ragione, nessun modello che può dirci quale è il ‘momento propizio’ per agire, per fare una o un’altra cosa. Né la ragione ci aiuta a leggere i segnali deboli, a cogliere il momento in cui si avvicina la tempesta.
Qohelet ci esorta a ‘lasciar vivere’ l'azienda, minimizzando i requisiti e limitando il controllo. Laa saggezza è più importante della ragione. La saggezza è moderazione, equilibrio, ed è conoscenza delle cose acquisita con l’esperienza.
Gettare il pane alle onde: accettare l'azienda che ‘si fa’, sorvegliare come si guarda il gregge, o il grano che cresce.
domenica 18 luglio 2010
Etica e strumenti
Lo scritto che segue era apparso (come commento a: Mario Viviani, “Il bilancio sociale negli enti locali”), su Sviluppo & Organizzazione, n. 204, luglio/agosto 2004, p. 94.
Avevo quasi dimenticato di avere scritto queste pagine. Che avrebbero potuto anche entrare nel testo di Contro il management. E che comunque ne costituiscono una significativa anticipazione – in particolare per alcuni dei temi trattati: la compresenza dei diversi stakeholder, l'etica degli affari (o business ethics che dir si voglia), la Corporate Social Responsibility, la centralità e i limiti delle rilevazioni contabili e bilancistiche, le metriche e gli asset intangibili.
Sono passati sei anni. Mi ritrovo in quello che ho scritto, salvo su un punto. In conclusione critico Bilanci Sociali, Carte dei valori, e in genere tutte le nuove metriche, oggi tanto di moda, tese a descrivere la qualità etica dell'impresa. Affermo quindi che è meglio restare sul concreto e lavorare intanto per rendere più trasparenti e completi i tradizionali 'bilanci d'esercizio' fondati sulla rilevazione contabile.
Confermo la critica di nuovi strumento e nuove metriche. Ma sono diventato più scettico e guardingo al riguardo del bilancio d'esercizio. Come scrivo in Contro il management: il bilancio, lungi dall'incamminarsi verso l'esssere uno strumento descrittivo rispettoso della complessa realtà dell'impresa, è lo strumento, direi quasi il grimaldello, attraverso il quale un solo stakeholder -la finanza nellesue diverse manifestazioni: banca, investitori istituzionali, borsa- subordina l'impresa al suo comando. Insomma: il bilancio potrebbe essere sì equanime, ma in realtà è redatto per dire dell'azienda solo ciò che la finanza vuol sentirsi dire.
Immaginate un edificio abbellito da accattivanti insegne sulla facciata e da bandiere sventolanti sul tetto. Immaginate che questo lussuoso apparato comunicativo sia ostentato come significativa miglioria. Eppure chi vive nell’edificio sa –o dovrebbe sapere– che le fondamenta sono poco solide, e che i sotterranei sono infestati da topi, e sono anche luogo di turpi commerci.
Comunicazione, sovrastruttura, operazione di immagine meramente descrittiva. Questo è, non di rado, il ‘bilancio sociale’, e nel complesso tutta l’impalcatura degli strumenti della Corporate Social Responsibility, CSR (o Responsabilità sociale d’impresa, RSI).
Perché se ne parla tanto, e vi si investono risorse, distogliendole dalla gestione e da azioni orientate al cambiamento, al miglioramento, allo sviluppo? Tutto nasce dal bisogno, diremmo addirittura dalla fame di etica.
La morale non è, in origine, necessaria. E’ del tutto fondato lo scetticismo di chi si domanda ‘perché devo essere morale se l’immoralità consente ad altri di ottenere a buon mercato successo e felicità?’. Trasimaco nella Repubblica di Platone sostiene che l’ingiustizia è più utile della giustizia per chi ha la forza di imporsi agli altri, e che perciò non ha nessun obbligo di seguire le norme che gli impediscono di fare quello che vuole.
Ma la ‘morale’ viene di attualità quando diventa diffusa la percezione del superamento di un limite. Quando si percepisce come eccessiva la sperequazione, la disuguaglianza. Quando è vessata e violata la nostra personale dignità morale, o quella del gruppo cui apparteniamo, o quella di altri a cui riconosciamo la nostra stessa dignità. Quando l’uso della libertà da parte di pochi è uno schiaffo troppo sonoro sul volto di molti. Quando il divario nella distribuzione della ricchezza sfugge al controllo. Quando l’equilibrio dei diritti e delle opportunità appare violato. Quando l’uso delle risorse naturali e lo sfruttamento dell’ambiente rischiano di mettere in discussione il nostro futuro.
Insomma, quando la morale stabilita in una comunità appare, in maniera offensiva, finalizzata solo agli interessi di chi nella comunità stessa detiene il potere, allora emerge il bisogno di un nuovo punto di incontro tra le diverse personali, utilitaristiche, ‘morali’. Allora si manifesta il bisogno di una ‘scienza della morale’, di un’etica.
E’ abbastanza evidente che ci troviamo oggi proprio in questa situazione. Di qui l’attenzione alla ‘sostenibilità’, alla ‘Corporate Governance’, di qui l’accanito dibattito attorno al concetto di stakeholder. Di qui la gran attenzione dedicata alla Corporate Social Responsibility.
Di fronte a tutto questo ciò che desta meraviglia, e che un po’ preoccupa, non è tanto la sostanza –la carenza di etica è un dato di realtà, il bisogno di ‘fare qualcosa’ è perfettamente fondato–. Ciò che meraviglia e preoccupa è l’enfasi del nuovo. C’è tutto il motivo per interrogarsi di nuovo, per rileggere Platone e Aritotele e i Padri della Chiesa e Hobbes e Bentham, Kant, Hobbes, Kant, Rousseau, Fichte, Nietzche, Jaspers, Bonhoeffer e Rawls, e anche magari qualche pagina di Drucker. Si potrebbe riprendere in mano la riflessione sulle regole della convivenza, sul controllo e sul contratto sociale, ed anche sulla teoria pura del diritto e sulle diverse genesi dei patti costituzionali.
Ma invece, salvo qualche dotta citazione, si tende piuttosto a prendere come fondamento qualche recente generico ‘documento ufficiale’, come il Green Paper sulla CSR della Commissione Europea (luglio 2001). E si pretende di trovare le risposte in qualche standard: si pensi in Italia al Progetto Q-RES. Come se l’insoddisfazione morale di fronte al funzionamento delle organizzazioni, e quindi il bisogno di etica, potessero essere risolti sul piano della certificazione. Come se l’etica potesse essere imposta, o garantita, attraverso una norma ISO 9000, 9001 o 9004 che sia.
Di fronte a questo approccio, ben venga la cautela espressa da Mario Viviani. Ma forse c’è da dire qualcosa a voce più alta.
Il problema non sta negli strumenti. E anzi nuovi strumenti rischiano di portare confusione e di favorire soluzioni illusorie. Buone per la ‘società dello spettacolo’, ma lontane alla capacità di incidere sui reali meccanismi del potere e sul reale funzionamento delle organizzazioni. Comunque la si giri il ‘bilancio sociale’ resta uno strumento di secondo livello, una riorganizzazione di informazioni costruita innanzitutto in funzione della facilità di lettura e dell’efficacia comunicativa. E’, al limite, una forma di advertising non tradizionale, vale quanto una sponsorizzazione sportiva o una televendita, o una donazione. Visto che è anche una impalcatura costosa, esistono alternative? Garantisce rispetto allo scopo primario, mettere in luce l’atteggiamento etico dell’organizzazione? Non offre magari dei pericolosi alibi?
Il problema non sta negli strumenti, perché forse gli strumenti esistono già. Il ‘bilancio sociale’ si propone come documento di sintesi, documento che riepiloga i dati più significativi emersi dalla gestione, e che permette di misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’. Si cerca di affermare il ‘bilancio sociale’ come strumento adatto per ogni persona giuridica, aziende a scopo di lucro, organizzazioni non profit, enti pubblici, lo stesso Stato. Pensate ora a quello strumento di rilevazione che è il bilancio di esercizio. Uno strumento criticabile fin che si vuole. Ma in grado di offrire una sintesi, di riepilogare i dati più significativi emersi dalla gestione, utile per misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’.E in uso da cinquecento anni, adottato in tutto il mondo, regolato da norme, in grado di permettere confronti.
Perché allora, invece di inventare un nuovo strumento, perché –se si cerca uno strumento in grado di valutare l’etica di una organizzazione– non lavorare a migliorare il ‘bilancio di esercizio’? Se si deve lavorare ad imporre nuovi standard, ben più importante della definizione degli standard di secondo livello tipici del ‘bilancio sociale’ è l’individuazione di parametri attraverso i quali portare alla luce, e a valore, gli asset intantagibili. I brand, gli investimenti in ricerca e sviluppo, le conoscenze detenute da dipendenti e collaboratori, la fidelizzazione dei clienti.
Del resto, si sa che nel bilancio di esercizio fondamentale è la funzione informativa nei confronti delle parti interessante al buon andamento dell'azienda: i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale. Non sono queste le figure sociali che oggi, con forse inutile nuovismo, chiamiamo stakeholder?
Certo, nelle pieghe del bilancio di esercizio si può nascondere l’omissione e l’inganno. Ma altrettanto può accadere, con più facilità, con il bilancio sociale. E certo, il bilancio di esercizio è difficile da leggere. Ma piuttosto che costruire un nuovo strumento, ugualmente non facile da leggere, non sarebbe meglio lavorare per diffondere tra i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale la capacità di leggere veramente il bilancio di esercizio?
La prima verifica della qualità etica di una organizzazione sta, probabilmente, nella trasparenza della sua informazione. Ora, credo che la trasparenza stia molto più nel redigere un bilancio di esercizio veramente completo e leggibile che nel redigere, oltre al bilancio di esercizio (considerato una fastidiosa necessità), un bilancio sociale nel quale ci si racconta come ci pare, confrontandoci con parametri scelti da noi stessi, spesso generici e fumosi e scarsamente vincolanti.
Il problema non sta negli strumenti, e –in fondo– nessun nuovo strumento è necessario neanche per quel che riguarda i Codici di comportamento e le Carte dei valori. Sentirsi dire che l’organizzazione pubblica o privata, orientata o no al profitto “si ispira alla tutela dei diritti umani, del lavoro, della sicurezza, dell’ambiente, nonché al sistema di valori e principi in materia di trasparenza e probità, efficienza energetica, sviluppo sostenibile, così come affermati dalle Istituzioni e dalle Convenzioni Internazionali” è acqua fresca.
Ogni organizzazione possiede un proprio apparato di normative e procedure. Non servono nuovi documenti chiamati in modo nuovo. Servono norme e procedure rispettose dell’etica, e redatte in modo comprensibile.
Questo è particolarmente vero per l’ente del quale parla Viviani nel suo articolo. La Regione emana leggi. Il Codice Etico vale e serve se si inserisce organicamente nel sistema normativo regionale. E più del Codice Etico, conta che tutta la produzione normativa di una Regione, ai diversi livelli di gerarchia delle fonti, sia veramente orientata a trovare un equilibrio etico tra i diversi interessi.
Avevo quasi dimenticato di avere scritto queste pagine. Che avrebbero potuto anche entrare nel testo di Contro il management. E che comunque ne costituiscono una significativa anticipazione – in particolare per alcuni dei temi trattati: la compresenza dei diversi stakeholder, l'etica degli affari (o business ethics che dir si voglia), la Corporate Social Responsibility, la centralità e i limiti delle rilevazioni contabili e bilancistiche, le metriche e gli asset intangibili.
Sono passati sei anni. Mi ritrovo in quello che ho scritto, salvo su un punto. In conclusione critico Bilanci Sociali, Carte dei valori, e in genere tutte le nuove metriche, oggi tanto di moda, tese a descrivere la qualità etica dell'impresa. Affermo quindi che è meglio restare sul concreto e lavorare intanto per rendere più trasparenti e completi i tradizionali 'bilanci d'esercizio' fondati sulla rilevazione contabile.
Confermo la critica di nuovi strumento e nuove metriche. Ma sono diventato più scettico e guardingo al riguardo del bilancio d'esercizio. Come scrivo in Contro il management: il bilancio, lungi dall'incamminarsi verso l'esssere uno strumento descrittivo rispettoso della complessa realtà dell'impresa, è lo strumento, direi quasi il grimaldello, attraverso il quale un solo stakeholder -la finanza nellesue diverse manifestazioni: banca, investitori istituzionali, borsa- subordina l'impresa al suo comando. Insomma: il bilancio potrebbe essere sì equanime, ma in realtà è redatto per dire dell'azienda solo ciò che la finanza vuol sentirsi dire.
Immaginate un edificio abbellito da accattivanti insegne sulla facciata e da bandiere sventolanti sul tetto. Immaginate che questo lussuoso apparato comunicativo sia ostentato come significativa miglioria. Eppure chi vive nell’edificio sa –o dovrebbe sapere– che le fondamenta sono poco solide, e che i sotterranei sono infestati da topi, e sono anche luogo di turpi commerci.
Comunicazione, sovrastruttura, operazione di immagine meramente descrittiva. Questo è, non di rado, il ‘bilancio sociale’, e nel complesso tutta l’impalcatura degli strumenti della Corporate Social Responsibility, CSR (o Responsabilità sociale d’impresa, RSI).
Perché se ne parla tanto, e vi si investono risorse, distogliendole dalla gestione e da azioni orientate al cambiamento, al miglioramento, allo sviluppo? Tutto nasce dal bisogno, diremmo addirittura dalla fame di etica.
La morale non è, in origine, necessaria. E’ del tutto fondato lo scetticismo di chi si domanda ‘perché devo essere morale se l’immoralità consente ad altri di ottenere a buon mercato successo e felicità?’. Trasimaco nella Repubblica di Platone sostiene che l’ingiustizia è più utile della giustizia per chi ha la forza di imporsi agli altri, e che perciò non ha nessun obbligo di seguire le norme che gli impediscono di fare quello che vuole.
Ma la ‘morale’ viene di attualità quando diventa diffusa la percezione del superamento di un limite. Quando si percepisce come eccessiva la sperequazione, la disuguaglianza. Quando è vessata e violata la nostra personale dignità morale, o quella del gruppo cui apparteniamo, o quella di altri a cui riconosciamo la nostra stessa dignità. Quando l’uso della libertà da parte di pochi è uno schiaffo troppo sonoro sul volto di molti. Quando il divario nella distribuzione della ricchezza sfugge al controllo. Quando l’equilibrio dei diritti e delle opportunità appare violato. Quando l’uso delle risorse naturali e lo sfruttamento dell’ambiente rischiano di mettere in discussione il nostro futuro.
Insomma, quando la morale stabilita in una comunità appare, in maniera offensiva, finalizzata solo agli interessi di chi nella comunità stessa detiene il potere, allora emerge il bisogno di un nuovo punto di incontro tra le diverse personali, utilitaristiche, ‘morali’. Allora si manifesta il bisogno di una ‘scienza della morale’, di un’etica.
E’ abbastanza evidente che ci troviamo oggi proprio in questa situazione. Di qui l’attenzione alla ‘sostenibilità’, alla ‘Corporate Governance’, di qui l’accanito dibattito attorno al concetto di stakeholder. Di qui la gran attenzione dedicata alla Corporate Social Responsibility.
Di fronte a tutto questo ciò che desta meraviglia, e che un po’ preoccupa, non è tanto la sostanza –la carenza di etica è un dato di realtà, il bisogno di ‘fare qualcosa’ è perfettamente fondato–. Ciò che meraviglia e preoccupa è l’enfasi del nuovo. C’è tutto il motivo per interrogarsi di nuovo, per rileggere Platone e Aritotele e i Padri della Chiesa e Hobbes e Bentham, Kant, Hobbes, Kant, Rousseau, Fichte, Nietzche, Jaspers, Bonhoeffer e Rawls, e anche magari qualche pagina di Drucker. Si potrebbe riprendere in mano la riflessione sulle regole della convivenza, sul controllo e sul contratto sociale, ed anche sulla teoria pura del diritto e sulle diverse genesi dei patti costituzionali.
Ma invece, salvo qualche dotta citazione, si tende piuttosto a prendere come fondamento qualche recente generico ‘documento ufficiale’, come il Green Paper sulla CSR della Commissione Europea (luglio 2001). E si pretende di trovare le risposte in qualche standard: si pensi in Italia al Progetto Q-RES. Come se l’insoddisfazione morale di fronte al funzionamento delle organizzazioni, e quindi il bisogno di etica, potessero essere risolti sul piano della certificazione. Come se l’etica potesse essere imposta, o garantita, attraverso una norma ISO 9000, 9001 o 9004 che sia.
Di fronte a questo approccio, ben venga la cautela espressa da Mario Viviani. Ma forse c’è da dire qualcosa a voce più alta.
Il problema non sta negli strumenti. E anzi nuovi strumenti rischiano di portare confusione e di favorire soluzioni illusorie. Buone per la ‘società dello spettacolo’, ma lontane alla capacità di incidere sui reali meccanismi del potere e sul reale funzionamento delle organizzazioni. Comunque la si giri il ‘bilancio sociale’ resta uno strumento di secondo livello, una riorganizzazione di informazioni costruita innanzitutto in funzione della facilità di lettura e dell’efficacia comunicativa. E’, al limite, una forma di advertising non tradizionale, vale quanto una sponsorizzazione sportiva o una televendita, o una donazione. Visto che è anche una impalcatura costosa, esistono alternative? Garantisce rispetto allo scopo primario, mettere in luce l’atteggiamento etico dell’organizzazione? Non offre magari dei pericolosi alibi?
Il problema non sta negli strumenti, perché forse gli strumenti esistono già. Il ‘bilancio sociale’ si propone come documento di sintesi, documento che riepiloga i dati più significativi emersi dalla gestione, e che permette di misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’. Si cerca di affermare il ‘bilancio sociale’ come strumento adatto per ogni persona giuridica, aziende a scopo di lucro, organizzazioni non profit, enti pubblici, lo stesso Stato. Pensate ora a quello strumento di rilevazione che è il bilancio di esercizio. Uno strumento criticabile fin che si vuole. Ma in grado di offrire una sintesi, di riepilogare i dati più significativi emersi dalla gestione, utile per misurare lo scostamento tra l’effettiva gestione e la ‘buona gestione’.E in uso da cinquecento anni, adottato in tutto il mondo, regolato da norme, in grado di permettere confronti.
Perché allora, invece di inventare un nuovo strumento, perché –se si cerca uno strumento in grado di valutare l’etica di una organizzazione– non lavorare a migliorare il ‘bilancio di esercizio’? Se si deve lavorare ad imporre nuovi standard, ben più importante della definizione degli standard di secondo livello tipici del ‘bilancio sociale’ è l’individuazione di parametri attraverso i quali portare alla luce, e a valore, gli asset intantagibili. I brand, gli investimenti in ricerca e sviluppo, le conoscenze detenute da dipendenti e collaboratori, la fidelizzazione dei clienti.
Del resto, si sa che nel bilancio di esercizio fondamentale è la funzione informativa nei confronti delle parti interessante al buon andamento dell'azienda: i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale. Non sono queste le figure sociali che oggi, con forse inutile nuovismo, chiamiamo stakeholder?
Certo, nelle pieghe del bilancio di esercizio si può nascondere l’omissione e l’inganno. Ma altrettanto può accadere, con più facilità, con il bilancio sociale. E certo, il bilancio di esercizio è difficile da leggere. Ma piuttosto che costruire un nuovo strumento, ugualmente non facile da leggere, non sarebbe meglio lavorare per diffondere tra i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale la capacità di leggere veramente il bilancio di esercizio?
La prima verifica della qualità etica di una organizzazione sta, probabilmente, nella trasparenza della sua informazione. Ora, credo che la trasparenza stia molto più nel redigere un bilancio di esercizio veramente completo e leggibile che nel redigere, oltre al bilancio di esercizio (considerato una fastidiosa necessità), un bilancio sociale nel quale ci si racconta come ci pare, confrontandoci con parametri scelti da noi stessi, spesso generici e fumosi e scarsamente vincolanti.
Il problema non sta negli strumenti, e –in fondo– nessun nuovo strumento è necessario neanche per quel che riguarda i Codici di comportamento e le Carte dei valori. Sentirsi dire che l’organizzazione pubblica o privata, orientata o no al profitto “si ispira alla tutela dei diritti umani, del lavoro, della sicurezza, dell’ambiente, nonché al sistema di valori e principi in materia di trasparenza e probità, efficienza energetica, sviluppo sostenibile, così come affermati dalle Istituzioni e dalle Convenzioni Internazionali” è acqua fresca.
Ogni organizzazione possiede un proprio apparato di normative e procedure. Non servono nuovi documenti chiamati in modo nuovo. Servono norme e procedure rispettose dell’etica, e redatte in modo comprensibile.
Questo è particolarmente vero per l’ente del quale parla Viviani nel suo articolo. La Regione emana leggi. Il Codice Etico vale e serve se si inserisce organicamente nel sistema normativo regionale. E più del Codice Etico, conta che tutta la produzione normativa di una Regione, ai diversi livelli di gerarchia delle fonti, sia veramente orientata a trovare un equilibrio etico tra i diversi interessi.
giovedì 1 luglio 2010
Mi sono trovato a usare, mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce
Copio qui la recensione apparsa sul N.6, Giugno 2010, di Scuolanews, network per la conoscenza, newsletter della Scuola Coop di Montelupo (www.scuolacoop.it).
Francesco Varanini, etnografo, scrittore, consulente, ricostruisce la storia del management, a partire dagli anni trenta del novecento. Il manager, affermatosi come figura sociale in grado di conciliare interessi diversi, finisce negli ultimi decenni per badare soprattutto al proprio interesse e per essere l’ambasciatore di un solo stakeholder all’interno delle aziende: Mr Finance, la finanza nella sua forma derivata e totalitaria. Il manager ha un solo padrone, lontano, esigente, diffuso, tentacolare che si individua nella comunità finanziaria ma anche nel direttore della filiale di banca o nel fondo di investimento. La finanza considera l'impresa fatta di persone come una figurina riconducibile a una metrica schematica, fatta di pochi indici di misura, che sono considerati universalmente significativi. Il ragionamento si sposta sulle conseguenza di un tale status quo, che l’autore auspica condurrà alla fine del management per come lo conosciamo. Come sarà fatta la figura che sostituirà il manager? Il meccanismo riduttivo ma se vogliamo efficace di ricondurre il proprio ruolo all'idea di controllo è saltato di fronte ad emergenze incontrollabili: dalla tragedia delle torri gemelle, al pozzo di petrolio che sprigiona greggio senza avere la ragionevole possibilità di un controllo. All’ideologia del controllo e del programma va sostituita la pratica del progetto. Varanini dipinge varie tipologie di manager, senza nascondere le proprie preferenze e critiche. Il testo passa in rassegna anche le storie italiane dei grandi manager che hanno segnato il destino del Paese: da Alberto Beneduce, a Carlo Feltrinelli, ad Adriano Olivetti, a Natale Capellaro. Un testo caratterizzato da spunti storico-filosofici ma anche da scelte di campo nette. “Mi sono trovato a usare, mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.” anticipa al lettore Varanini nell’Introduzione.
Francesco Varanini, etnografo, scrittore, consulente, ricostruisce la storia del management, a partire dagli anni trenta del novecento. Il manager, affermatosi come figura sociale in grado di conciliare interessi diversi, finisce negli ultimi decenni per badare soprattutto al proprio interesse e per essere l’ambasciatore di un solo stakeholder all’interno delle aziende: Mr Finance, la finanza nella sua forma derivata e totalitaria. Il manager ha un solo padrone, lontano, esigente, diffuso, tentacolare che si individua nella comunità finanziaria ma anche nel direttore della filiale di banca o nel fondo di investimento. La finanza considera l'impresa fatta di persone come una figurina riconducibile a una metrica schematica, fatta di pochi indici di misura, che sono considerati universalmente significativi. Il ragionamento si sposta sulle conseguenza di un tale status quo, che l’autore auspica condurrà alla fine del management per come lo conosciamo. Come sarà fatta la figura che sostituirà il manager? Il meccanismo riduttivo ma se vogliamo efficace di ricondurre il proprio ruolo all'idea di controllo è saltato di fronte ad emergenze incontrollabili: dalla tragedia delle torri gemelle, al pozzo di petrolio che sprigiona greggio senza avere la ragionevole possibilità di un controllo. All’ideologia del controllo e del programma va sostituita la pratica del progetto. Varanini dipinge varie tipologie di manager, senza nascondere le proprie preferenze e critiche. Il testo passa in rassegna anche le storie italiane dei grandi manager che hanno segnato il destino del Paese: da Alberto Beneduce, a Carlo Feltrinelli, ad Adriano Olivetti, a Natale Capellaro. Un testo caratterizzato da spunti storico-filosofici ma anche da scelte di campo nette. “Mi sono trovato a usare, mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.” anticipa al lettore Varanini nell’Introduzione.
sabato 26 giugno 2010
Riflessioni per un manager del futuro. Una conversazione con Francesco Varanini
Ritengo molto interessante questa intervista curata da Fabio Viola, apparsa su On the Move, sezione 'web 2.0' del sito Autogrill.
Certo, direte, il solito narcisismo dell'autore. Ma ripeto, credo che l'intervista sia interessante, e che l'interesse più che alle risposte sia dovuto alle domande - poste con passione e autonomia. A me l'androginous management, definizione sintetica e pertinente di un possibile management del futuro, non sarebbe venuto in mente.
Cito qui solo un brano:
Fabio Viola: Ci sono linee di mutamento che potrebbero ridefinire la figura del manager, inteso come figura capace di guardare in avanti? In tutto il libro lei evidenzia che il manager che abbiamo conosciuto fino ad adesso elabora le sua strategie sulla base di dati e modelli ancorati al passato, non ha quella finestra aperta sull’ignoto che il manager del futuro per lei dovrebbe avere. I requisiti fondamentali per chi dovrà gestire le aziende rete, interconnesse, ubique e impermanenti del futuro, lei dice, sono molteplici, non standardizzabili e centrati sul valore della differenza; basati su un orientamento alla complessità e sull’assunzione di un ruolo di guida, governo e di cura. Ho notato una forte assonanza con quanto dicono i gender studies riguardo agli stili dirigenziali femminili. Il manager del futuro è una donna o dovrà comunque femminilizzarsi, possedere quell’attitudine alle relazioni, ai legami e alla cura e alla responsabilità, attitudine che è socialmente percepita come femminile?
Francesco Varanini: Sì, qui sicuramente siamo di fronte ad una situazione paradossale. Diciamo anche che questa è una grande differenza rispetto agli anni ’30. Negli anni 30 c’erano molte meno donne nel mercato del lavoro, quindi nel bene e nel male era tutto un discorso interno al genere maschile. Con gravi conseguenze negative perché la differenza è fonte di ricchezza.
Ma oggi, quando la metà della forza lavoro, delle popolazione attiva nel mondo del lavoro sono donne, beh... il punto di vista di questa metà sull'organizzazione del lavoro, sul modo fare impresa e di stare in azienda non sappiamo neanche quale è... Sappiamo in ogni caso che è un pensiero diverso da quello di un uomo, e che non è valorizzato.
La stessa complessità che viviamo ci impedisce di sapere prima, in anticipo, quelle che saranno le soluzioni ai problemi che si presentano. Dobbiamo quindi metterci nelle condizioni di scoprire le soluzioni istante dopo istante, affrontando le situazioni che emergono. Il modo di governare del futuro presumibilmente questo. governare.
Eppure restiamo ancorati a questo management maschile, il che vuol dire sprecare la metà delle possibili soluzioni … Non ascoltare la metà delle persone in grado di proporre delle possibili soluzioni di fronte al problema è un gravissimo errore.
Quindi sicuramente la figura che sostituirà il manager nel futuro è sia maschile che femminile, con un momento maschile e un momento femminile e quindi… si va verso un discorso di contaminazione e di multiculturalità.
In questo senso rischia di diventare un limite un discorso legato alla fase di passaggio, nella quale la donna cerca spazi in modelli organizzativi e in modelli di management segnati dall'impronta maschile. E' un passaggio forse necessario, ma che non valorizza la differenza. La differenza si vedrà solo in un management del futuro, che appunto non è né maschile né femminile, un management capace di mischiare tutto un po’, attento alle situazioni emergenti, un management contaminato, meticciato…
F: Un androginous management?
V: Sì.
F: Che fa dell’ibridazione la sua pratica?
V: Sì… proprio! Poi credo che più si va avanti più si vede che il manager è una pratica che ha sempre meno senso teorizzare, perché quest’idea del controllo fondato su un piano fatto prima, questa idea di pianificazione e di programmazione, di fronte a situazioni sempre più incerte, sempre più difficili da leggere unilinearmente, è sempre più fallace.
Perciò il controllo cambia di senso, controllo sì, ma rispetto agli obiettivi che ti dai , rispetto allo scopo… “Dove sono arrivato ? cosa sto facendo per raggiungere lo scopo?” L'aver speso prima tanto tempo nel fare piani è solo una rassicurazione… per qualcuno.
F: Una rassicurazione che dispensa dal confrontarsi con la concretezza del presente…
V: Sì, appunto.
Certo, direte, il solito narcisismo dell'autore. Ma ripeto, credo che l'intervista sia interessante, e che l'interesse più che alle risposte sia dovuto alle domande - poste con passione e autonomia. A me l'androginous management, definizione sintetica e pertinente di un possibile management del futuro, non sarebbe venuto in mente.
Cito qui solo un brano:
Fabio Viola: Ci sono linee di mutamento che potrebbero ridefinire la figura del manager, inteso come figura capace di guardare in avanti? In tutto il libro lei evidenzia che il manager che abbiamo conosciuto fino ad adesso elabora le sua strategie sulla base di dati e modelli ancorati al passato, non ha quella finestra aperta sull’ignoto che il manager del futuro per lei dovrebbe avere. I requisiti fondamentali per chi dovrà gestire le aziende rete, interconnesse, ubique e impermanenti del futuro, lei dice, sono molteplici, non standardizzabili e centrati sul valore della differenza; basati su un orientamento alla complessità e sull’assunzione di un ruolo di guida, governo e di cura. Ho notato una forte assonanza con quanto dicono i gender studies riguardo agli stili dirigenziali femminili. Il manager del futuro è una donna o dovrà comunque femminilizzarsi, possedere quell’attitudine alle relazioni, ai legami e alla cura e alla responsabilità, attitudine che è socialmente percepita come femminile?
Francesco Varanini: Sì, qui sicuramente siamo di fronte ad una situazione paradossale. Diciamo anche che questa è una grande differenza rispetto agli anni ’30. Negli anni 30 c’erano molte meno donne nel mercato del lavoro, quindi nel bene e nel male era tutto un discorso interno al genere maschile. Con gravi conseguenze negative perché la differenza è fonte di ricchezza.
Ma oggi, quando la metà della forza lavoro, delle popolazione attiva nel mondo del lavoro sono donne, beh... il punto di vista di questa metà sull'organizzazione del lavoro, sul modo fare impresa e di stare in azienda non sappiamo neanche quale è... Sappiamo in ogni caso che è un pensiero diverso da quello di un uomo, e che non è valorizzato.
La stessa complessità che viviamo ci impedisce di sapere prima, in anticipo, quelle che saranno le soluzioni ai problemi che si presentano. Dobbiamo quindi metterci nelle condizioni di scoprire le soluzioni istante dopo istante, affrontando le situazioni che emergono. Il modo di governare del futuro presumibilmente questo. governare.
Eppure restiamo ancorati a questo management maschile, il che vuol dire sprecare la metà delle possibili soluzioni … Non ascoltare la metà delle persone in grado di proporre delle possibili soluzioni di fronte al problema è un gravissimo errore.
Quindi sicuramente la figura che sostituirà il manager nel futuro è sia maschile che femminile, con un momento maschile e un momento femminile e quindi… si va verso un discorso di contaminazione e di multiculturalità.
In questo senso rischia di diventare un limite un discorso legato alla fase di passaggio, nella quale la donna cerca spazi in modelli organizzativi e in modelli di management segnati dall'impronta maschile. E' un passaggio forse necessario, ma che non valorizza la differenza. La differenza si vedrà solo in un management del futuro, che appunto non è né maschile né femminile, un management capace di mischiare tutto un po’, attento alle situazioni emergenti, un management contaminato, meticciato…
F: Un androginous management?
V: Sì.
F: Che fa dell’ibridazione la sua pratica?
V: Sì… proprio! Poi credo che più si va avanti più si vede che il manager è una pratica che ha sempre meno senso teorizzare, perché quest’idea del controllo fondato su un piano fatto prima, questa idea di pianificazione e di programmazione, di fronte a situazioni sempre più incerte, sempre più difficili da leggere unilinearmente, è sempre più fallace.
Perciò il controllo cambia di senso, controllo sì, ma rispetto agli obiettivi che ti dai , rispetto allo scopo… “Dove sono arrivato ? cosa sto facendo per raggiungere lo scopo?” L'aver speso prima tanto tempo nel fare piani è solo una rassicurazione… per qualcuno.
F: Una rassicurazione che dispensa dal confrontarsi con la concretezza del presente…
V: Sì, appunto.
Questi capi sono da bocciare
Questa recensione è apparsa su Panorama Economy, 30 giugno 2010. Dopo averla letta, il mio editore mi ha scritto "non mi aspettavo tu fossi così esplicito sui nomi". Non credo di essere stato poi tanto esplicito, e credo che chiunque, leggendo il libro, ma anche solo le descrizioni dei 'sette tipi di manager'così come le sintetizzo in questo blog (vedi i post dedicati ad ognuno dei tipi), o anche solo leggendo la breve descrizione dei tipi presentata sulle pagine della rivista, credo che in ogni caso ognuno di voi sarà in grado di indicare diversi manager corrispondenti al ognuno dei tipi.
A proposito della recensione, devo aggiungere una cosa: avevo dato alla redazione, come richiesto, alcune mie foto recenti. Ma hanno preferito usare un mia foto di dieci anni fa. Scattata quando uscì Romanzi per i manager. (Su Romanzi per i manager, e i due libri della stessa serie che ne costituiscono il seguito, vedete sul blog Il principe di Condé).
Se proprio volete vedere foto più recenti, guardate qui.
A proposito della recensione, devo aggiungere una cosa: avevo dato alla redazione, come richiesto, alcune mie foto recenti. Ma hanno preferito usare un mia foto di dieci anni fa. Scattata quando uscì Romanzi per i manager. (Su Romanzi per i manager, e i due libri della stessa serie che ne costituiscono il seguito, vedete sul blog Il principe di Condé).
Se proprio volete vedere foto più recenti, guardate qui.
domenica 13 giugno 2010
La teoria degli stakeholder e la rilettura negativa di Ansoff
Forse a Igor Ansoff, nel mio libro, faccio dire più del dovuto. Ma non voglio farmi prendere nella rete del management inteso come teoria autoreferenziale. Non mi interessa appoggiare le mie argomentazioni su fonti accademiche. Mi interessa esporre ciò che il mio sguardo mi porta a vedere. La bibliografia non aggiunge valore a ciò che dico.
Eppure, ho letto i libri. E non voglio eludere l'aspettativa di chi mi chiede di collocare il mio discorso nel quadro della letteratura manageriale.
Così, ripeto, ad Ansoff faccio dire forse più di quanto vorrebbe. Ma se lo è meritato, perché nessuno come lui, mi pare, ha parlato con chiarezza del tema che mi sta a cuore.
Nel 1963, in un internal memo redatto da studiosi dello Stanford Research Institute appare il termine stakeholder. “Those groups without whose support the organization would cease to exist”. Sul versante europeo si può ricordare il contemporaneo lavoro di Erik Rhenman presso l'Handelshögskolan i Stockholm (Stockholm School of Economics) e presso l'Università di Lund.
Mi pare irrilevante, ed anzi fuorviante la formula astratta coniata da Rhenman: 'democrazia industriale'. Sto ai fatti che Rhenman e gli studiosi di Stanford rilevano con chiarezza: persone diverse dipendono dall’azienda per quanto riguarda i propri obiettivi personali; da queste persone, e quindi dalla concreta attenzione ai loro interessi, dipende l’esistenza dell’azienda. Una circolarità virtuosa lega il tener conto degli interessi degli attori ed il guardare all'interesse dell'azienda. L'una cosa dipende dall'altra.
Ma ecco entrare in scena Ansoff, russo-americano, formazione matematica, manager e poi tra i primi teorici del management. Corporate Strategy è la descrizione di una “metodologia pratica”, facilmente accessibile, “per l’assunzione di decisioni strategiche”.(Igor Ansoff, Corporate Strategy: An Analityc Approach to Business Policy for Growth and Expansion, McGraw-Hill, New York, 1965; trad. it. Strategia aziendale, Etas Libri, Milano, 1968). Un testo base, dal mio punto di vista, della teoria manageriale non ripiegata su se stessa, ma rivolta invece a mostrare il cammino ai manager.
Ansoff prende atto dell'esistenza degli stakeholder, portatore ognuno di un proprio interesse, ognuno necessario. Ma subito precisa: un conto sono gli obiettivi economici dell'impresa, un conto la sua responsabilità sociale. Detto fuori dai denti: gli stakeholder non sono tutti uguali. In ogni caso uno stakeholder, chi ha investito denaro nell'azienda, lo shareholder, conta più degli altri. Il suo interesse deve comunque essere considerato prevalente.
Qui ha origine, secondo me, il lungo viaggio che conduce il manager all'infausto traguardo, all'essere esecutore di comandi del mercato finanziario.
Senza l'attiva compresenza di stakeholder diversi, portatori ognuno di un proprio, diverso interesse, vengono meno le basi dell'autonoma azione manageriale. L'azionariato diffuso non porta in realtà nessuna libertà al manager: l'interesse degli azionisti non è che un'articolazione dell'interesse espresso complessivamente dal mercato finanziario.
Il manager trova ragione di esistere ed è libero- e quindi può decidere, incidere, agire- solo se ha molti 'padroni': gli investitori, sì, ma anche i lavoratori, i clienti, i fornitori, la comunità locale e nazionale. Solo se ha molti padroni non ha nessun padrone. Ed è quindi socialmente ed economicamente utile.
Eppure, ho letto i libri. E non voglio eludere l'aspettativa di chi mi chiede di collocare il mio discorso nel quadro della letteratura manageriale.
Così, ripeto, ad Ansoff faccio dire forse più di quanto vorrebbe. Ma se lo è meritato, perché nessuno come lui, mi pare, ha parlato con chiarezza del tema che mi sta a cuore.
Nel 1963, in un internal memo redatto da studiosi dello Stanford Research Institute appare il termine stakeholder. “Those groups without whose support the organization would cease to exist”. Sul versante europeo si può ricordare il contemporaneo lavoro di Erik Rhenman presso l'Handelshögskolan i Stockholm (Stockholm School of Economics) e presso l'Università di Lund.
Mi pare irrilevante, ed anzi fuorviante la formula astratta coniata da Rhenman: 'democrazia industriale'. Sto ai fatti che Rhenman e gli studiosi di Stanford rilevano con chiarezza: persone diverse dipendono dall’azienda per quanto riguarda i propri obiettivi personali; da queste persone, e quindi dalla concreta attenzione ai loro interessi, dipende l’esistenza dell’azienda. Una circolarità virtuosa lega il tener conto degli interessi degli attori ed il guardare all'interesse dell'azienda. L'una cosa dipende dall'altra.
Ma ecco entrare in scena Ansoff, russo-americano, formazione matematica, manager e poi tra i primi teorici del management. Corporate Strategy è la descrizione di una “metodologia pratica”, facilmente accessibile, “per l’assunzione di decisioni strategiche”.(Igor Ansoff, Corporate Strategy: An Analityc Approach to Business Policy for Growth and Expansion, McGraw-Hill, New York, 1965; trad. it. Strategia aziendale, Etas Libri, Milano, 1968). Un testo base, dal mio punto di vista, della teoria manageriale non ripiegata su se stessa, ma rivolta invece a mostrare il cammino ai manager.
Ansoff prende atto dell'esistenza degli stakeholder, portatore ognuno di un proprio interesse, ognuno necessario. Ma subito precisa: un conto sono gli obiettivi economici dell'impresa, un conto la sua responsabilità sociale. Detto fuori dai denti: gli stakeholder non sono tutti uguali. In ogni caso uno stakeholder, chi ha investito denaro nell'azienda, lo shareholder, conta più degli altri. Il suo interesse deve comunque essere considerato prevalente.
Qui ha origine, secondo me, il lungo viaggio che conduce il manager all'infausto traguardo, all'essere esecutore di comandi del mercato finanziario.
Senza l'attiva compresenza di stakeholder diversi, portatori ognuno di un proprio, diverso interesse, vengono meno le basi dell'autonoma azione manageriale. L'azionariato diffuso non porta in realtà nessuna libertà al manager: l'interesse degli azionisti non è che un'articolazione dell'interesse espresso complessivamente dal mercato finanziario.
Il manager trova ragione di esistere ed è libero- e quindi può decidere, incidere, agire- solo se ha molti 'padroni': gli investitori, sì, ma anche i lavoratori, i clienti, i fornitori, la comunità locale e nazionale. Solo se ha molti padroni non ha nessun padrone. Ed è quindi socialmente ed economicamente utile.
domenica 23 maggio 2010
Breve narrazione video
Contro il management è innanzitutto un libro. Se non fosse stato per l'editore, Angelo Guerini, che mi ha proposto di scrivere un libro, queste cose che avevo in mente, cose di cui avevo parlato oralmente, con amici e in situazioni diverse, cose che in forma sparsa in parte avevo già scritto, tutto questo non sarebbe stato alla portata dei lettori interessati.
Ma il libro, oggi, non vive nel nulla. Si inserisce in un panorama multimediale. Così potete avvicinarvi al tema, e decidere di leggere il libro, anche ascoltandomi narrare.
Ma il libro, oggi, non vive nel nulla. Si inserisce in un panorama multimediale. Così potete avvicinarvi al tema, e decidere di leggere il libro, anche ascoltandomi narrare.
venerdì 21 maggio 2010
Se il mondo della politica vi pare brutto, dovreste vedere quello del management
Le conseguenze nefaste del management non possono non apparire evidenti, eppure il management gode di buona, di ottima fama.
Mentre cerco di spiegare il perché, mi risuona in mente il titolo di una famosa conferenza di Philip Dick: “Se vi pare che questo mondo si brutto, dovreste vederne qualche altro”.
Siamo indignati da certe degenerazioni della classe politica, che si trasforma in casta, siamo senza parole di fronte alle lungaggini e ai bizantinismo della burocrazia, cosicché finiamo per cercare soluzioni in un altrove.
Il management gode di buona stampa – senza che ci si renda conto che la buona stampa è dovuta agli interessi del mercato finanziario: la stampa economica ha tutto l'interesse a illustrare la figura dei suoi più fedeli e necessari servitori. Il management appare incontestabile manifestazione della modernità americana. La sua immagine è circonfusa dall'aura del successo: successo personale del manager, profitti garantiti dalla gestione dei manager, prospera vita in Borsa dei titoli garantiti da buoni manager. L'idea di un mercato liberista che tende verso l'autoregolazione, strettamente connessa al management, si traduce nella convinzione che l'azione del manager sia controllata e mantenuta in un ambito di correttezza dallo sguardo interessato della business community. Il management è illusoriamente letto, anche, come sinonimo di equa gestione. Il management, visto da lontano, appare una tecnica intrinsecamente fondata su un'etica laica, che se non garantisce la migliore gestione, garantisce almeno la lontananza dalle modalità di gestione più bieche, più retrive.
Niente di più falso e fuorviante. Il fatto è che il management gode del vantaggio di essere sconosciuto. Un miraggio lontano.
Qualsiasi giornalista o politologo sa, o crede di sapere, come funziona la politica. Le pagine di commento dei quotidiani sono perciò colme di acuminate critiche, quando non di saggi ammonimenti, rivolti a singoli ministri e statisti e leader di partito e a esponenti del sottobosco, oppure al sistema polito tutto, alla classe alla casta. Si bacchetta il cattivo di turno, il burattino che si conosce. Spesso, per sottolineare retoricamente le malefatte della politica, si sbandiera l'opposto modello dell'impresa, eticamente tesa verso 'i conti in nero', verso il profitto, verso l'interesse privato garanzia di interesse pubblico. E anche quando l'alternativa virtuosa non è ostentata, sempre questa aleggia dietro le parole.
Il punto che sfugge, o che si vuole occultare, è che giornalisti e politologi ed anche esimi professori, ed esimi ospiti di talk show televisivi, nulla sanno di come funzionano le cose all'interno delle aziende. Nulla sanno della pochezza culturale del management; nulla sanno, o vogliono sapere, della selezione al contrario, che premia i manager peggiori; non immaginano che un'azienda, nella mani del manager, è costretta a funzionare con il freno a mano tirato. Esperti e tuttologi nulla sanno, o si preoccupano di sapere. Non sanno che il management non guarda alle persone, non sa valorizzarle per quello che sono; considera inutile ascoltarle. Non sanno che la gestione manageriale non porge vera attenzione alle risorse che ha in pancia. Non sanno che spessissimo alla pubblica immagine così ben lustrata da esperti di comunicazione, corrisponde una pessima immagine agli occhi di chi in quella azienda lavora; non sanno che questa cattiva immagine interna è il più delle volte fondata su solidi motivi: il manager non è un leader, non ha carisma, non tiene conto di ciò che sappiamo fare, trascura potenzialità pure evidenti. Non sanno, questi esperti, che le aziende, che sulla carta dei giornali e nelle relazioni allegate ai bilanci appaiono come esemplari casi di efficienza e di ragion pratica, sono in realtà il regno di un'inconcepibile inefficienza, luoghi dove regna il disordine e l'ingiustizia. Non sanno che la tipica gestione consiste vivere il presente con lo sguardo fisso su pezzi di carta scritti in passato. Sopratutto non sanno, o non vogliono dire, che oggi l'azienda, nella mani del manager, è legata all'interesse esterno ma invadente della finanza, schiacciata sotto questo peso.
Eppure, nel mentre si mostra disinteresse per come funziona veramente l'azienda privata guidata da manager, si considera la virata verso il management sempre utile e conveniente. Ci si allontana da un brutto mondo che si conosce, e per questa vai si finisce malauguratamente per buttarsi nelle mani di manager che nulla aggiungono e molto tolgono.
Qui la politica va a braccetto con la finanza. Entrambe in fondo tendono a sfruttare l'azienda, tendono ad appropriarsi della ricchezza che l'azienda produce. La politica, per lo più vanamente, tenta di mettere le briglie alla finanza. La finanza sa che deve convivere con la politica. Ma finanza e politica colludono nel considerare le aziende vacche da mungere. E concordano nel considerare il management come porta di accesso.
Mentre cerco di spiegare il perché, mi risuona in mente il titolo di una famosa conferenza di Philip Dick: “Se vi pare che questo mondo si brutto, dovreste vederne qualche altro”.
Siamo indignati da certe degenerazioni della classe politica, che si trasforma in casta, siamo senza parole di fronte alle lungaggini e ai bizantinismo della burocrazia, cosicché finiamo per cercare soluzioni in un altrove.
Il management gode di buona stampa – senza che ci si renda conto che la buona stampa è dovuta agli interessi del mercato finanziario: la stampa economica ha tutto l'interesse a illustrare la figura dei suoi più fedeli e necessari servitori. Il management appare incontestabile manifestazione della modernità americana. La sua immagine è circonfusa dall'aura del successo: successo personale del manager, profitti garantiti dalla gestione dei manager, prospera vita in Borsa dei titoli garantiti da buoni manager. L'idea di un mercato liberista che tende verso l'autoregolazione, strettamente connessa al management, si traduce nella convinzione che l'azione del manager sia controllata e mantenuta in un ambito di correttezza dallo sguardo interessato della business community. Il management è illusoriamente letto, anche, come sinonimo di equa gestione. Il management, visto da lontano, appare una tecnica intrinsecamente fondata su un'etica laica, che se non garantisce la migliore gestione, garantisce almeno la lontananza dalle modalità di gestione più bieche, più retrive.
Niente di più falso e fuorviante. Il fatto è che il management gode del vantaggio di essere sconosciuto. Un miraggio lontano.
Qualsiasi giornalista o politologo sa, o crede di sapere, come funziona la politica. Le pagine di commento dei quotidiani sono perciò colme di acuminate critiche, quando non di saggi ammonimenti, rivolti a singoli ministri e statisti e leader di partito e a esponenti del sottobosco, oppure al sistema polito tutto, alla classe alla casta. Si bacchetta il cattivo di turno, il burattino che si conosce. Spesso, per sottolineare retoricamente le malefatte della politica, si sbandiera l'opposto modello dell'impresa, eticamente tesa verso 'i conti in nero', verso il profitto, verso l'interesse privato garanzia di interesse pubblico. E anche quando l'alternativa virtuosa non è ostentata, sempre questa aleggia dietro le parole.
Il punto che sfugge, o che si vuole occultare, è che giornalisti e politologi ed anche esimi professori, ed esimi ospiti di talk show televisivi, nulla sanno di come funzionano le cose all'interno delle aziende. Nulla sanno della pochezza culturale del management; nulla sanno, o vogliono sapere, della selezione al contrario, che premia i manager peggiori; non immaginano che un'azienda, nella mani del manager, è costretta a funzionare con il freno a mano tirato. Esperti e tuttologi nulla sanno, o si preoccupano di sapere. Non sanno che il management non guarda alle persone, non sa valorizzarle per quello che sono; considera inutile ascoltarle. Non sanno che la gestione manageriale non porge vera attenzione alle risorse che ha in pancia. Non sanno che spessissimo alla pubblica immagine così ben lustrata da esperti di comunicazione, corrisponde una pessima immagine agli occhi di chi in quella azienda lavora; non sanno che questa cattiva immagine interna è il più delle volte fondata su solidi motivi: il manager non è un leader, non ha carisma, non tiene conto di ciò che sappiamo fare, trascura potenzialità pure evidenti. Non sanno, questi esperti, che le aziende, che sulla carta dei giornali e nelle relazioni allegate ai bilanci appaiono come esemplari casi di efficienza e di ragion pratica, sono in realtà il regno di un'inconcepibile inefficienza, luoghi dove regna il disordine e l'ingiustizia. Non sanno che la tipica gestione consiste vivere il presente con lo sguardo fisso su pezzi di carta scritti in passato. Sopratutto non sanno, o non vogliono dire, che oggi l'azienda, nella mani del manager, è legata all'interesse esterno ma invadente della finanza, schiacciata sotto questo peso.
Eppure, nel mentre si mostra disinteresse per come funziona veramente l'azienda privata guidata da manager, si considera la virata verso il management sempre utile e conveniente. Ci si allontana da un brutto mondo che si conosce, e per questa vai si finisce malauguratamente per buttarsi nelle mani di manager che nulla aggiungono e molto tolgono.
Qui la politica va a braccetto con la finanza. Entrambe in fondo tendono a sfruttare l'azienda, tendono ad appropriarsi della ricchezza che l'azienda produce. La politica, per lo più vanamente, tenta di mettere le briglie alla finanza. La finanza sa che deve convivere con la politica. Ma finanza e politica colludono nel considerare le aziende vacche da mungere. E concordano nel considerare il management come porta di accesso.
mercoledì 12 maggio 2010
lunedì 10 maggio 2010
Presentazione alla Casa della Cultura, Milano 10 maggio 2010
Se il mondo della politica vi pare brutto, dovreste vedere quello del management
Lunedì 10 maggio 2010, ore 18
Casa della Cultura
Via Borgogna 3, Milano
Casa della Cultura
Via Borgogna 3, Milano
presentazione del volume
Contro il management
La vanità del controllo, gli inganni della finanza
e la speranza di una costruzione comune
di Francesco Varanini
edito da Guerini e Associati
discutono con l’autore:
Gianluca Bocchi
Docente di Filosofia della Scienza, Università di Bergamo
Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura di Milano
Gianfranco Dioguardi
Docente di Economia e Organizzazione Aziendale, Politecnico di Bari
Trovate qui l'audio della presentazione
Contro il management
La vanità del controllo, gli inganni della finanza
e la speranza di una costruzione comune
di Francesco Varanini
edito da Guerini e Associati
discutono con l’autore:
Gianluca Bocchi
Docente di Filosofia della Scienza, Università di Bergamo
Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura di Milano
Gianfranco Dioguardi
Docente di Economia e Organizzazione Aziendale, Politecnico di Bari
Trovate qui l'audio della presentazione
Introduzione
Sempre di lavoro si tratta
Ricordo il momento preciso in cui mi è venuto improvvisamente in mente, con chiarezza, un pensiero. Un pensiero che mi ha dato sollievo e che mi ha aperto la mente: gira e rigira, il manager, lo stesso Amministratore delegato o Chief Executive Officer che dir si voglia, non è che un lavoratore, un lavoratore come tutti gli altri. Con gli stessi diritti e gli stessi doveri.
L'oggetto interessante, il tema che merita riflessione, anche guardando a quello che fanno Amministratori Delegati e dirigenti in genere, è il lavoro in sé, o meglio ancora: la vita operosa, perché non c'è confine sensato tra momenti e fasi diversi della vita. Anche il confine tra 'lavoro' e 'tempo libero' è fallace e fuorviante. Come usano il loro tempo i manager? Di cosa si occupano in realtà? Perché appaiono differenti da ogni altro lavoratore?
Se guardo all'Amministratore Delegato, e ad ogni dirigente, come a 'un lavoratore qualsiasi', l'oggetto d'indagine mi si presenta in una luce ben diversa da come mi sarebbe apparso se avessi preso per buona letteratura del management, con le sue categorie e i suoi assunti.
Se guardo all'Amministratore Delegato, ed ad ogni dirigente, come lavoratori qualsiasi, cesso di dare per scontato un ruolo, una immagine consolidata, e posso tornare liberamente a chiedermi se e come il manager aggiunge valore. E sopratutto per chi lavora, al servizio di quali interessi.
Basta con il management. Basta con i riferimenti ai sacri testi di questa disciplina. Basta con l'isolare questo ambito di attività. Perché poi, quali sono i confini della disciplina?
Professori, dirigenti e semplici impiegati
Gli sguardi di umanisti e illuministi abbracciavano vasti territori, non c'era soluzione di continuità tra il micro e il macro, tra botanica e anatomia, astronomia e poesia. Poi nell'Ottocento e nel Novecento è progressivamente intervenuta in campo scientifico la specializzazione, fino a una parcellizzazione del lavoro di tipo taylorista. Accade così che i confini che segmentano oggi le scienze -ne ragionavo in questi giorni con un amico- appaiano del tutto arbitrari, convenzionali. Eppure sono intesi come inviolabili e quasi sacri, così come i confini che separano l'uno dall'altro gli stati nazionali moderni.
Più il management diviene disciplina matura, più pone attenzione alla definizione dei propri confini, a dispute tra scuole e correnti interne, a studi che si rifanno ad altri studi. Così, l'attenzione riconosciuta ad un testo dipende non da ciò che il testo dice, ma dai riferimenti a sacri testi, dall'esplicito Ossequio al Canone.
Se avessi fatto mio questo orientamento, avrei potuto, o dovuto, farcire il testo di citazioni tra parentesi di fonti bibliografiche. Avrei dovuto aggiungere note su note.
A smentire l'utilità di una simile pratica, ho sempre in mente le parole, una quindicina di anni fa, di un collega più autorevole di me, più esperto. Tornavamo da un viaggio di lavoro.In auto, ormai neni pressi di Milano, combattevamo il tedio parlando del più e del meno. Mi parlava dell'articolo che stava concludendo per la più nota rivista scientifica del settore. Mi diceva: scrivo a partire dalla mia esperienza. La bibliografia, perché ci vuole, poi si aggiunge alla fine: ormai ho una bibliografia standard pronta, libri e articoli sopratutto americani. La aggiorno via via. Dì lì, a cose fatte, estraggo la bibliografia per i miei articoli e i miei libri.
Scrivere a partire da ciò che si conosce, che si pensa di sapere, a partire da ciò che si osserva, e poi comunque aggiungere pretese fonti, per Ossequio al Canone. Che pratica insensata. Una pratica che allontana il testo da chi lo scrive e chi lo legge. Una pratica che, ben lungi dall'aggiungerne, sottrae conoscenza.
Così come vana mi pare la ricorrente tendenza a fondare teorie manageriali di volta in volta diverse, una volta su un approccio filosofico, una volta su un nuovo percorso di ricerca emerso nel campo delle scienze naturali, una volta prendendo spunto dall'epistemologia delle scienze naturali, dall'etnografia, una volta attingendo alla critica letteraria o alla psicanalisi.
Intendiamoci, spesso si tratta di roba buona, in origine. Ma roba che arriva allo studioso di management di terza mano: lo studioso -che non è un filosofo, né uno scienziato, né un etnografo, né un critico letterario, né un analista- si fonda su ciò che legge su manuale che già ha trasformato quella materia viva in tema di studio, in inerte materia accademica.
Anche questo approccio finisce per allontanare dal tema di cui si scrive. Anche qui Ossequio a un Canone, in questo caso altrui. Anche qui nessun valore aggiunto, e invece sottrazione di conoscenza.
Accumulare studi di buone pratiche manageriali mi pare utile forse a fini accademici, ma molto meno utile per il manager. Il manager che giorno dopo giorno si trova ad affrontare nuovi problemi, nuove situazioni, non so quanto possa essere confortato nella sua azione da ciò che successo o all'insuccesso di altri manager, in tempi passati ed in luoghi diversi.
Questo vizio inquina qualsiasi ricerca. Funge da alibi per allontanarsi, per non considerarsi parte in causa nell'indagine. Mentre credo che, sempre, l'osservatore faccia parte dell'oggetto d'indagine. Ogni ricerca parla della vita, fa parte della vita. Quale sia il tema della mia ricerca, sono in gioco persone in carne ed ossa, mente e corpo. Innanzitutto sono in gioco io stesso. La ricerca non può mai essere slegata dall'autobiografia.
Ma questo vizio consistente nel prendere le distanze tramite l'Ossequio al Canone inquina in modo speciale uno studio che vuole guardare all'azienda. Perché nell'azienda vivono persone che hanno molto da dire. Persone dolenti, scherzose, speranzose, che ogni giorno in quello che fanno 'ci mettono l'anima'.
Nel guardare a come funziona l'azienda e a come agisce chi la dirige, spero di riuscire a tener conto del loro sguardo e della loro parola.
In una grande azienda, nella hall, al tavolo della reception (uso queste parole inglesi con cautela: vorrei che percepiste come allontanano dalla concretezza, dal sano parla-come-mangi), sta seduto un uomo di bassa statura, pelato, con occhiali di tartaruga: sorveglia il passaggio, saluta educatamente, perlopiù resta silenzioso. Ma è cintura nera di karate, esperto di culture orientali. Tutte le volte che ho parlato con lui ho ascoltato parole di grande saggezza.
Spero di essere capace di scrivere a nome suo, a nome di tutti li lavoratori come lui - che sono tanti.
Ma per i manager di quell'azienda la sua voce non conta. Anzi, lui come persona non esiste.
In una bolla ovattata
Infinite volte mi sono ritrovato a dirmi che il management produce un effetto di irrealtà.
E' come stare chiusi dentro una bolla sospesa sopra l'organizzazione. La vita quotidiana dell'azienda, fatta azioni e di desideri e di sogni e di pratiche, di gioco e di incazzature, anche di lacrime di rabbia, di lì non si vede. A chi vive entro la bolla non giunge che una pallida eco, delle voci di chi vive e lavora non resta che un ronzio, un rumore di fondo.
Eppure nella quiete ovattata della bolla, così distante dalla vita dell'azienda, si decide della vita dell'azienda, e si studia il funzionamento dell'azienda.
Credo che ogni persona al lavoro sia chiamata a portare il proprio contributo, e credo anche che i margini di autonomia, gli spazi per fare che ognuno ha a disposizione, siano più ampi di quello che difensivamente ognuno pensa. Perciò, di fronte al funzionamento delle aziende, dobbiamo dire che la responsabilità è di tutti e di ognuno. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per cambiare le cose'. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per migliorare la mia situazione'.
Credo però anche che, se pure ogni lavoratore è portatore di responsabilità, chi dirige sia portatore di una responsabilità speciale, più alta e più complessiva.
Cerco di ragionare a proposito di questa responsabilità. Considero primo effetto negativo della cattiva gestione, considero primo danno prodotto dal management il fornire alibi a gli altri lavoratori. Comportandosi come si comporta, il manager permette che si dica: 'se loro si comportano così, io sto già facendo troppo'.
Troppe persone disposte a darsi da fare faticano a capire perché i manager sono così distanti. Troppi lavoratori faticano a capire in vista di quali obiettivi il manager realmente lavora. Troppi lavoratori finiscono per pensar male, e quindi per leggere nei comportamenti nel manager personali comodi e secondi fini, anche quando i personali comodi e i secondi fini non ci sono.
Il fatto è, purtroppo, che il personale comodo e il secondo fine sono prassi quotidiana. Non sto pensando ora agli eccessi: sto pensando alla norma, legittimata dal management canonico. Il manager cerca il personale comodo scegliendosi il 'padrone' a cui rispondere. Il fine di questo 'padrone', che spesso ha ben poco a che fare con l'azienda che il manager dirige, finisce per diventare l'unico fine realmente perseguito.
Questo libro
Eccomi qui quindi con questo libro.
Scrivendolo, ho avuto l'impressione di stare sulle montagne russe. Salire e scendere; di nuovo salire e scendere di nuovo.
Mi sono trovato a usare, anche mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.
Mi sono trovato a riflettere su questioni economiche e sociali e politiche e filosofiche di grande portata, e poi a dar voce alle chiacchiere di persone raccolte attorno alla macchinetta del caffè. Trovo che manchi una saldatura tra questi due mondi discorsivi -conoscenza 'scientifica' e conoscenza esperita nella pratica quotidiana- e considero questa una grave e pericolosa mancanza.
Mi sono trovato a mischiare politica economica, storia, sociologia, etnografia, letteratura, filosofia: forse è questo che il management, inteso come disciplina, dovrebbe saper tenere insieme. Ma è lungi dal riuscirci. Ho dovuto fare da solo.
Metto in gioco quello che ho provato lavorando in azienda come impiegato assunto con contratto a termine, come quadro, come dirigente. Metto in gioco quello che penso di aver capito quando per qualche mese ho fatto l'operaio. Metto in gioco il mio sguardo etnografico e la mia convinzione di essere un artista, uno scrittore.
Risalgo alle origini del management. Zola e lo stesso Svevo parlano della Borsa: l'attività speculativa, così radicalmente contrapposta all'attività produttiva che ha luogo in azienda. A partire dalla propria autobiografia Svevo parla del ruolo del ruolo del manager, un ruolo nuovo, proprio negli anni in cui la figura del manager inizia a stare al centro della scena, fuori dall'ombra del Padrone.
Di fronte alla crisi, Keynes guarda pragmaticamente al che fare. Berle Means, Burnham, Orwell guardano alle luci e alle ombre di una nuova figura sociale.
Il trionfo dei manager, notava tempestivamente Orwell, non poteva che portare a una società pianificata e centralizzata, fortemente divaricata tra un vertice: cupola di una aristocrazia del (preteso) talento, ed una base di lavoratori sempre più impotenti e succubi.
A Igor Ansoff, forse, faccio dire più del dovuto. Siccome non voglio farmi prendere nella rete dei guru del management, uso Ansoff come testimone e figura simbolica. Lo faccio parlare a nome di tutti. Tutti infatti, come lui, accettano che la figura a suo modo grandiosa che il manager era in origine finisca per immiserirsi: non più che l'esecutore di altrui strategie.
Preferisco dar credito a voci anomale: Kracauer alla fine degli Anni Venti, Dick al culmine degli Anni Sessanta. E ancora Svevo con il suo modo di essere attivo e presente, un modo imperfetto, e per questo efficace.
In poche parole
In poche parole, questa è la mia tesi.
I manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l'azienda un pollaio, un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato, oppure eccessivamente assoggettato a procedure. In realtà, in entrambi i casi, privo, o meglio, privato di vita. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe nel pollaio oggi è la finanza - che mediante la connivenza del manager, fa dell'azienda terreno di razzia.
Sostengo che il manager, affermatosi come figura sociale in grado di essere conciliatore di interessi diversi, ha finito per badare innanzitutto a proprio interesse, e in seconda battuta per essere l'ambasciatore della finanza all'interno dell'azienda; o peggio, la longa manus della finanza.
Spero che i manager che conosco siano arrivati a leggere fino a questo punto, perché ora mi rivolgo a loro.
So bene che dietro il conformarsi ad un ruolo, dietro l'apparenza, dietro il forse inevitabile conformarsi alle aspettative di ruolo, resta la persona, con i suoi valori, con la sua unicità, con la sua umana ricchezza. Non nego a nessuno questa ricchezza. Tanto meno a voi. Mi auguro perciò che non vi riconosciate nel manager che descrivo.
Credo che però siate d'accordo con me nel dire che c'è qualcosa che non va. Credo che in fondo condividiate la mia indignazione e il mio dispetto. Confido quindi che queste pagine stimolino ad una riflessione collettiva.
Non riesco -per mia fortuna- a liberarmi di un'inguaribile orientamento alla speranza. Perciò a una Pars Destruens segue una Pars Construens.
Penso ad una azienda come costruzione comune, dove i diversi portatori di interessi coinvolti nella vita dell'azienda: chi vi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale la pubblica amministrazione -gli stakeholder tutti, insomma- sappiano accettare la compresenza dei diversi interessi, e si mostrino disposti a cercare insieme una convergenza. Un luogo vero il quale possano ragionevolmente convergere di diversi sguardi.
Per andare in questa direzione c'è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare le astrazioni normative del management ed orientata a guidare, governare, curare: non è poi così difficile.
Ricordo il momento preciso in cui mi è venuto improvvisamente in mente, con chiarezza, un pensiero. Un pensiero che mi ha dato sollievo e che mi ha aperto la mente: gira e rigira, il manager, lo stesso Amministratore delegato o Chief Executive Officer che dir si voglia, non è che un lavoratore, un lavoratore come tutti gli altri. Con gli stessi diritti e gli stessi doveri.
L'oggetto interessante, il tema che merita riflessione, anche guardando a quello che fanno Amministratori Delegati e dirigenti in genere, è il lavoro in sé, o meglio ancora: la vita operosa, perché non c'è confine sensato tra momenti e fasi diversi della vita. Anche il confine tra 'lavoro' e 'tempo libero' è fallace e fuorviante. Come usano il loro tempo i manager? Di cosa si occupano in realtà? Perché appaiono differenti da ogni altro lavoratore?
Se guardo all'Amministratore Delegato, e ad ogni dirigente, come a 'un lavoratore qualsiasi', l'oggetto d'indagine mi si presenta in una luce ben diversa da come mi sarebbe apparso se avessi preso per buona letteratura del management, con le sue categorie e i suoi assunti.
Se guardo all'Amministratore Delegato, ed ad ogni dirigente, come lavoratori qualsiasi, cesso di dare per scontato un ruolo, una immagine consolidata, e posso tornare liberamente a chiedermi se e come il manager aggiunge valore. E sopratutto per chi lavora, al servizio di quali interessi.
Basta con il management. Basta con i riferimenti ai sacri testi di questa disciplina. Basta con l'isolare questo ambito di attività. Perché poi, quali sono i confini della disciplina?
Professori, dirigenti e semplici impiegati
Gli sguardi di umanisti e illuministi abbracciavano vasti territori, non c'era soluzione di continuità tra il micro e il macro, tra botanica e anatomia, astronomia e poesia. Poi nell'Ottocento e nel Novecento è progressivamente intervenuta in campo scientifico la specializzazione, fino a una parcellizzazione del lavoro di tipo taylorista. Accade così che i confini che segmentano oggi le scienze -ne ragionavo in questi giorni con un amico- appaiano del tutto arbitrari, convenzionali. Eppure sono intesi come inviolabili e quasi sacri, così come i confini che separano l'uno dall'altro gli stati nazionali moderni.
Più il management diviene disciplina matura, più pone attenzione alla definizione dei propri confini, a dispute tra scuole e correnti interne, a studi che si rifanno ad altri studi. Così, l'attenzione riconosciuta ad un testo dipende non da ciò che il testo dice, ma dai riferimenti a sacri testi, dall'esplicito Ossequio al Canone.
Se avessi fatto mio questo orientamento, avrei potuto, o dovuto, farcire il testo di citazioni tra parentesi di fonti bibliografiche. Avrei dovuto aggiungere note su note.
A smentire l'utilità di una simile pratica, ho sempre in mente le parole, una quindicina di anni fa, di un collega più autorevole di me, più esperto. Tornavamo da un viaggio di lavoro.In auto, ormai neni pressi di Milano, combattevamo il tedio parlando del più e del meno. Mi parlava dell'articolo che stava concludendo per la più nota rivista scientifica del settore. Mi diceva: scrivo a partire dalla mia esperienza. La bibliografia, perché ci vuole, poi si aggiunge alla fine: ormai ho una bibliografia standard pronta, libri e articoli sopratutto americani. La aggiorno via via. Dì lì, a cose fatte, estraggo la bibliografia per i miei articoli e i miei libri.
Scrivere a partire da ciò che si conosce, che si pensa di sapere, a partire da ciò che si osserva, e poi comunque aggiungere pretese fonti, per Ossequio al Canone. Che pratica insensata. Una pratica che allontana il testo da chi lo scrive e chi lo legge. Una pratica che, ben lungi dall'aggiungerne, sottrae conoscenza.
Così come vana mi pare la ricorrente tendenza a fondare teorie manageriali di volta in volta diverse, una volta su un approccio filosofico, una volta su un nuovo percorso di ricerca emerso nel campo delle scienze naturali, una volta prendendo spunto dall'epistemologia delle scienze naturali, dall'etnografia, una volta attingendo alla critica letteraria o alla psicanalisi.
Intendiamoci, spesso si tratta di roba buona, in origine. Ma roba che arriva allo studioso di management di terza mano: lo studioso -che non è un filosofo, né uno scienziato, né un etnografo, né un critico letterario, né un analista- si fonda su ciò che legge su manuale che già ha trasformato quella materia viva in tema di studio, in inerte materia accademica.
Anche questo approccio finisce per allontanare dal tema di cui si scrive. Anche qui Ossequio a un Canone, in questo caso altrui. Anche qui nessun valore aggiunto, e invece sottrazione di conoscenza.
Accumulare studi di buone pratiche manageriali mi pare utile forse a fini accademici, ma molto meno utile per il manager. Il manager che giorno dopo giorno si trova ad affrontare nuovi problemi, nuove situazioni, non so quanto possa essere confortato nella sua azione da ciò che successo o all'insuccesso di altri manager, in tempi passati ed in luoghi diversi.
Questo vizio inquina qualsiasi ricerca. Funge da alibi per allontanarsi, per non considerarsi parte in causa nell'indagine. Mentre credo che, sempre, l'osservatore faccia parte dell'oggetto d'indagine. Ogni ricerca parla della vita, fa parte della vita. Quale sia il tema della mia ricerca, sono in gioco persone in carne ed ossa, mente e corpo. Innanzitutto sono in gioco io stesso. La ricerca non può mai essere slegata dall'autobiografia.
Ma questo vizio consistente nel prendere le distanze tramite l'Ossequio al Canone inquina in modo speciale uno studio che vuole guardare all'azienda. Perché nell'azienda vivono persone che hanno molto da dire. Persone dolenti, scherzose, speranzose, che ogni giorno in quello che fanno 'ci mettono l'anima'.
Nel guardare a come funziona l'azienda e a come agisce chi la dirige, spero di riuscire a tener conto del loro sguardo e della loro parola.
In una grande azienda, nella hall, al tavolo della reception (uso queste parole inglesi con cautela: vorrei che percepiste come allontanano dalla concretezza, dal sano parla-come-mangi), sta seduto un uomo di bassa statura, pelato, con occhiali di tartaruga: sorveglia il passaggio, saluta educatamente, perlopiù resta silenzioso. Ma è cintura nera di karate, esperto di culture orientali. Tutte le volte che ho parlato con lui ho ascoltato parole di grande saggezza.
Spero di essere capace di scrivere a nome suo, a nome di tutti li lavoratori come lui - che sono tanti.
Ma per i manager di quell'azienda la sua voce non conta. Anzi, lui come persona non esiste.
In una bolla ovattata
Infinite volte mi sono ritrovato a dirmi che il management produce un effetto di irrealtà.
E' come stare chiusi dentro una bolla sospesa sopra l'organizzazione. La vita quotidiana dell'azienda, fatta azioni e di desideri e di sogni e di pratiche, di gioco e di incazzature, anche di lacrime di rabbia, di lì non si vede. A chi vive entro la bolla non giunge che una pallida eco, delle voci di chi vive e lavora non resta che un ronzio, un rumore di fondo.
Eppure nella quiete ovattata della bolla, così distante dalla vita dell'azienda, si decide della vita dell'azienda, e si studia il funzionamento dell'azienda.
Credo che ogni persona al lavoro sia chiamata a portare il proprio contributo, e credo anche che i margini di autonomia, gli spazi per fare che ognuno ha a disposizione, siano più ampi di quello che difensivamente ognuno pensa. Perciò, di fronte al funzionamento delle aziende, dobbiamo dire che la responsabilità è di tutti e di ognuno. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per cambiare le cose'. Nessuno può dire: 'non posso far nulla per migliorare la mia situazione'.
Credo però anche che, se pure ogni lavoratore è portatore di responsabilità, chi dirige sia portatore di una responsabilità speciale, più alta e più complessiva.
Cerco di ragionare a proposito di questa responsabilità. Considero primo effetto negativo della cattiva gestione, considero primo danno prodotto dal management il fornire alibi a gli altri lavoratori. Comportandosi come si comporta, il manager permette che si dica: 'se loro si comportano così, io sto già facendo troppo'.
Troppe persone disposte a darsi da fare faticano a capire perché i manager sono così distanti. Troppi lavoratori faticano a capire in vista di quali obiettivi il manager realmente lavora. Troppi lavoratori finiscono per pensar male, e quindi per leggere nei comportamenti nel manager personali comodi e secondi fini, anche quando i personali comodi e i secondi fini non ci sono.
Il fatto è, purtroppo, che il personale comodo e il secondo fine sono prassi quotidiana. Non sto pensando ora agli eccessi: sto pensando alla norma, legittimata dal management canonico. Il manager cerca il personale comodo scegliendosi il 'padrone' a cui rispondere. Il fine di questo 'padrone', che spesso ha ben poco a che fare con l'azienda che il manager dirige, finisce per diventare l'unico fine realmente perseguito.
Questo libro
Eccomi qui quindi con questo libro.
Scrivendolo, ho avuto l'impressione di stare sulle montagne russe. Salire e scendere; di nuovo salire e scendere di nuovo.
Mi sono trovato a usare, anche mio malgrado, paroloni, e al contempo mi sono trovato ad usare, per necessità, parolacce.
Mi sono trovato a riflettere su questioni economiche e sociali e politiche e filosofiche di grande portata, e poi a dar voce alle chiacchiere di persone raccolte attorno alla macchinetta del caffè. Trovo che manchi una saldatura tra questi due mondi discorsivi -conoscenza 'scientifica' e conoscenza esperita nella pratica quotidiana- e considero questa una grave e pericolosa mancanza.
Mi sono trovato a mischiare politica economica, storia, sociologia, etnografia, letteratura, filosofia: forse è questo che il management, inteso come disciplina, dovrebbe saper tenere insieme. Ma è lungi dal riuscirci. Ho dovuto fare da solo.
Metto in gioco quello che ho provato lavorando in azienda come impiegato assunto con contratto a termine, come quadro, come dirigente. Metto in gioco quello che penso di aver capito quando per qualche mese ho fatto l'operaio. Metto in gioco il mio sguardo etnografico e la mia convinzione di essere un artista, uno scrittore.
Risalgo alle origini del management. Zola e lo stesso Svevo parlano della Borsa: l'attività speculativa, così radicalmente contrapposta all'attività produttiva che ha luogo in azienda. A partire dalla propria autobiografia Svevo parla del ruolo del ruolo del manager, un ruolo nuovo, proprio negli anni in cui la figura del manager inizia a stare al centro della scena, fuori dall'ombra del Padrone.
Di fronte alla crisi, Keynes guarda pragmaticamente al che fare. Berle Means, Burnham, Orwell guardano alle luci e alle ombre di una nuova figura sociale.
Il trionfo dei manager, notava tempestivamente Orwell, non poteva che portare a una società pianificata e centralizzata, fortemente divaricata tra un vertice: cupola di una aristocrazia del (preteso) talento, ed una base di lavoratori sempre più impotenti e succubi.
A Igor Ansoff, forse, faccio dire più del dovuto. Siccome non voglio farmi prendere nella rete dei guru del management, uso Ansoff come testimone e figura simbolica. Lo faccio parlare a nome di tutti. Tutti infatti, come lui, accettano che la figura a suo modo grandiosa che il manager era in origine finisca per immiserirsi: non più che l'esecutore di altrui strategie.
Preferisco dar credito a voci anomale: Kracauer alla fine degli Anni Venti, Dick al culmine degli Anni Sessanta. E ancora Svevo con il suo modo di essere attivo e presente, un modo imperfetto, e per questo efficace.
In poche parole
In poche parole, questa è la mia tesi.
I manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l'azienda un pollaio, un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato, oppure eccessivamente assoggettato a procedure. In realtà, in entrambi i casi, privo, o meglio, privato di vita. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe nel pollaio oggi è la finanza - che mediante la connivenza del manager, fa dell'azienda terreno di razzia.
Sostengo che il manager, affermatosi come figura sociale in grado di essere conciliatore di interessi diversi, ha finito per badare innanzitutto a proprio interesse, e in seconda battuta per essere l'ambasciatore della finanza all'interno dell'azienda; o peggio, la longa manus della finanza.
Spero che i manager che conosco siano arrivati a leggere fino a questo punto, perché ora mi rivolgo a loro.
So bene che dietro il conformarsi ad un ruolo, dietro l'apparenza, dietro il forse inevitabile conformarsi alle aspettative di ruolo, resta la persona, con i suoi valori, con la sua unicità, con la sua umana ricchezza. Non nego a nessuno questa ricchezza. Tanto meno a voi. Mi auguro perciò che non vi riconosciate nel manager che descrivo.
Credo che però siate d'accordo con me nel dire che c'è qualcosa che non va. Credo che in fondo condividiate la mia indignazione e il mio dispetto. Confido quindi che queste pagine stimolino ad una riflessione collettiva.
Non riesco -per mia fortuna- a liberarmi di un'inguaribile orientamento alla speranza. Perciò a una Pars Destruens segue una Pars Construens.
Penso ad una azienda come costruzione comune, dove i diversi portatori di interessi coinvolti nella vita dell'azienda: chi vi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale la pubblica amministrazione -gli stakeholder tutti, insomma- sappiano accettare la compresenza dei diversi interessi, e si mostrino disposti a cercare insieme una convergenza. Un luogo vero il quale possano ragionevolmente convergere di diversi sguardi.
Per andare in questa direzione c'è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare le astrazioni normative del management ed orientata a guidare, governare, curare: non è poi così difficile.
sabato 1 maggio 2010
Contro il management, in poche parole
Il manager appare sulla scena all’inizio degli anni Trenta. Tecnico puro, specializzato nella direzione di grandi organizzazioni, gli è affidato il compito di condurre l’economia fuori dalla crisi.
Oggi, in anni segnati da una nuova crisi, ritroviamoil manager ridotto a figura impotente e inutile. Anzi, dannosa. Non più baluardo dell’economia produttiva di fronte alle pretese della speculazione finanziaria, ma all’opposto rappresentante degli interessi della finanza all’interno delleaziende. Non più remunerato in funzione dei risultati produttivi dell’impresa, ma compensato invece in funzione dell’apprezzamento di un titolo da parte della Borsa.
Eppure il manager gode di credito. Anche perchéil ruolo è celebrato da una pseudo-scienza: il management. Guru, Business School, società di consulenza strategica ben poco spiegano di ci che in realtà accade – e anzi contribuiscono a nasconderlo.
Questo libro nasce dall’indignazione. Per lo spreco di risorse, per l’ipocrisia, per il cinismo. Aziende asservite all’interesse privato di chi dovrebbe essere al loro servizio. Il valore misurato con l’unico metro del denaro. Luoghi dove potrebbe sprigionarsi la creatività, dove potrebbe regnare il piacere legato al lavoro, trasformati in deserti affettivi, dove vigono abuso e sfruttamento.
Eppure è possibile immaginare l’azienda come una costruzione comune, dove i diversi portatoridi interessi – chi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale, la pubblica amministrazione: gli stakeholder, insomma – sappiano accettare la compresenza dei diversi punti di vista.
Per andare in questa direzione c’è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare astrazioni normative e orientata, invece, a guidare, governare, curare.
La tesi del libro, dunque, si riassume in poche parole: i manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l’azienda in un pollaio. Un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato. Oppure totalmente assoggettato a procedure: tutti polli in batteria, privati della possibilità di essere se stessi. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe oggi è la finanza – che, mediante la connivenza del manager, fa dell’azienda terreno di razzia.
Oggi, in anni segnati da una nuova crisi, ritroviamoil manager ridotto a figura impotente e inutile. Anzi, dannosa. Non più baluardo dell’economia produttiva di fronte alle pretese della speculazione finanziaria, ma all’opposto rappresentante degli interessi della finanza all’interno delleaziende. Non più remunerato in funzione dei risultati produttivi dell’impresa, ma compensato invece in funzione dell’apprezzamento di un titolo da parte della Borsa.
Eppure il manager gode di credito. Anche perchéil ruolo è celebrato da una pseudo-scienza: il management. Guru, Business School, società di consulenza strategica ben poco spiegano di ci che in realtà accade – e anzi contribuiscono a nasconderlo.
Questo libro nasce dall’indignazione. Per lo spreco di risorse, per l’ipocrisia, per il cinismo. Aziende asservite all’interesse privato di chi dovrebbe essere al loro servizio. Il valore misurato con l’unico metro del denaro. Luoghi dove potrebbe sprigionarsi la creatività, dove potrebbe regnare il piacere legato al lavoro, trasformati in deserti affettivi, dove vigono abuso e sfruttamento.
Eppure è possibile immaginare l’azienda come una costruzione comune, dove i diversi portatoridi interessi – chi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale, la pubblica amministrazione: gli stakeholder, insomma – sappiano accettare la compresenza dei diversi punti di vista.
Per andare in questa direzione c’è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo. Una figura sociale disposta ad abbandonare astrazioni normative e orientata, invece, a guidare, governare, curare.
La tesi del libro, dunque, si riassume in poche parole: i manager, pianificando e controllando, finiscono per trasformare l’azienda in un pollaio. Un luogo cintato, chiuso. Chiassoso confuso e disordinato. Oppure totalmente assoggettato a procedure: tutti polli in batteria, privati della possibilità di essere se stessi. Per le volpi facile approfittarne. La più abile volpe oggi è la finanza – che, mediante la connivenza del manager, fa dell’azienda terreno di razzia.
L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo
Ho scritto per non arrendermi, per reagire, per elaborare dispetto e delusione. Ho scritto a nome a tutti coloro che, ormai vicini alla rassegnazione, osservano la degenerazione delle aziende in cui lavorano. Ho scritto nella speranza di rendere evidente agli occhi dei manager la vanità della loro fatica: gli aspetti illusori del budget, l'accanimento carrieristico, il tempo speso inutilmente la sera in ufficio, il decisionismo che nasconde l'atteggiamento succube nei confronti di ciò che vuole la finanza.
Ma forse più di tante parole basta qualche verso. Nel corso degli anni, spesso mi sono trovato a esprimere in poesia ciò che non riuscivo a dire altrimenti.
Lascio alla fine L'irresistibile ascesa, versi distillati dal dolore e dalla rabbia. (Poesia scritta nella prima metà degli anni '90, già apparsa nella raccolta che ne riprendeva il titolo: L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, Guerini e Associati, 2003).
Sono passati tanti anni. Nella mia vicenda autobiografica, molte cose sono cambiate. Ma l'immagine del management che desumevo allora da accadimenti che mi avevano profondamente ferito, non è per nulla cambiata. Semmai posso dire che la situazione è degenerata. Per questo penso ci si avvicini a un punto di svolta. Al posto dei manager, persone disposte alla guida, al governo, alla cura.
(Nota: Posso anche essere più preciso, dicendo che questi versi sono ispirati da un manager, una persona precisa, che è stato per un certo periodo mio capo e 'Padrone').
L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo
Ho visto lampi d'ira contratta
dietro gli occhiali d'oro
di uomini marketing
assurti passo dopo passo
ai vertici aziendali
ho visto le loro mani curate
incapaci di stringere mani
e le loro dita serrate
fino al bianco delle nocche
attorno a penne Montblanc
li ho visti spiare il mondo
da dietro il vetro a specchio
dell'Istituto di Ricerche di Mercato
e poi chiedere lumi deferenti
al Guru e alla sua Mappa
li ho visti descrivere il nulla
in sede di briefing
impermeabili all'imbarazzo dell'account
perché col denaro si può comprare
tutto, anche le idee
li ho visti delusi dal sell-in
compulsare tabulati
ed esigere nuovi incroci di dati
perché i piani di marketing
non potevano essere sbagliati
li ho visti abbarbicarsi
per non commettere errori
alle strategie dei competitori
e prendere prodotti stranieri e dire
cosa ci vuole, lo facciamo anche noi
li ho visti ridurre la cultura aziendale
in polvere, in commodities senza sale
li ho sentiti vantarsi di avere sempre copiato
perché innovare è un rischio
che agevolmente può essere evitato
li ho visti sordi
alle accorate ragioni
dei vecchi aziendalisti
che dicevano guardi, mi creda,
questo davvero non si può fare
li ho visti questionare senza vergogna
di tecniche di produzione
imponendo a forza di grida
la propria ignoranza
come forma di potere
li ho visti convocare riunioni
solo per staffilare in faccia colpe
circostanze costruite ad arte per sentirsi
sopra agli altri, ridotti
a guardarsi in silenzio negli occhi
li ho sentiti magnificare
i collaboratori più protervi
o più deboli o più servi
e assumere ragazzi senza genio
ma figli di qualcuno
li ho visti in ufficio
chiusi già di prima mattina
lontani dal prodotto e dalla fabbrica
ma con il telefono in mano
e l'elenco di persone da cazziare
li ho visti agire
solo per non fermarsi a capire
li ho visti fare e disfare
pur di non fermarsi
mai a pensare
li ho uditi ragionare di stili di consumo
ma li ho visti spaesati
alla stazione del treno e nel metro
e sperduti nel traffico
in assenza dell'autista
li ho sentiti rammentare
il loro sogno infantile
essere un giorno
amministratore delegato
di qualcosa
e raccontare le loro domeniche bestiali
nelle loro case da architetto e senza libri
incapaci d'ozio e di piacere
rigidi in jeans ed in maglione
come nella giacca e cravatta da lavoro
costretti ancora da sé stessi
alla fatica vana
di vivere dietro gli occhiali d'oro
con disperata applicazione, il tempo
riga dopo riga dell'agenda.
Ma forse più di tante parole basta qualche verso. Nel corso degli anni, spesso mi sono trovato a esprimere in poesia ciò che non riuscivo a dire altrimenti.
Lascio alla fine L'irresistibile ascesa, versi distillati dal dolore e dalla rabbia. (Poesia scritta nella prima metà degli anni '90, già apparsa nella raccolta che ne riprendeva il titolo: L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, Guerini e Associati, 2003).
Sono passati tanti anni. Nella mia vicenda autobiografica, molte cose sono cambiate. Ma l'immagine del management che desumevo allora da accadimenti che mi avevano profondamente ferito, non è per nulla cambiata. Semmai posso dire che la situazione è degenerata. Per questo penso ci si avvicini a un punto di svolta. Al posto dei manager, persone disposte alla guida, al governo, alla cura.
(Nota: Posso anche essere più preciso, dicendo che questi versi sono ispirati da un manager, una persona precisa, che è stato per un certo periodo mio capo e 'Padrone').
L'irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo
Ho visto lampi d'ira contratta
dietro gli occhiali d'oro
di uomini marketing
assurti passo dopo passo
ai vertici aziendali
ho visto le loro mani curate
incapaci di stringere mani
e le loro dita serrate
fino al bianco delle nocche
attorno a penne Montblanc
li ho visti spiare il mondo
da dietro il vetro a specchio
dell'Istituto di Ricerche di Mercato
e poi chiedere lumi deferenti
al Guru e alla sua Mappa
li ho visti descrivere il nulla
in sede di briefing
impermeabili all'imbarazzo dell'account
perché col denaro si può comprare
tutto, anche le idee
li ho visti delusi dal sell-in
compulsare tabulati
ed esigere nuovi incroci di dati
perché i piani di marketing
non potevano essere sbagliati
li ho visti abbarbicarsi
per non commettere errori
alle strategie dei competitori
e prendere prodotti stranieri e dire
cosa ci vuole, lo facciamo anche noi
li ho visti ridurre la cultura aziendale
in polvere, in commodities senza sale
li ho sentiti vantarsi di avere sempre copiato
perché innovare è un rischio
che agevolmente può essere evitato
li ho visti sordi
alle accorate ragioni
dei vecchi aziendalisti
che dicevano guardi, mi creda,
questo davvero non si può fare
li ho visti questionare senza vergogna
di tecniche di produzione
imponendo a forza di grida
la propria ignoranza
come forma di potere
li ho visti convocare riunioni
solo per staffilare in faccia colpe
circostanze costruite ad arte per sentirsi
sopra agli altri, ridotti
a guardarsi in silenzio negli occhi
li ho sentiti magnificare
i collaboratori più protervi
o più deboli o più servi
e assumere ragazzi senza genio
ma figli di qualcuno
li ho visti in ufficio
chiusi già di prima mattina
lontani dal prodotto e dalla fabbrica
ma con il telefono in mano
e l'elenco di persone da cazziare
li ho visti agire
solo per non fermarsi a capire
li ho visti fare e disfare
pur di non fermarsi
mai a pensare
li ho uditi ragionare di stili di consumo
ma li ho visti spaesati
alla stazione del treno e nel metro
e sperduti nel traffico
in assenza dell'autista
li ho sentiti rammentare
il loro sogno infantile
essere un giorno
amministratore delegato
di qualcosa
e raccontare le loro domeniche bestiali
nelle loro case da architetto e senza libri
incapaci d'ozio e di piacere
rigidi in jeans ed in maglione
come nella giacca e cravatta da lavoro
costretti ancora da sé stessi
alla fatica vana
di vivere dietro gli occhiali d'oro
con disperata applicazione, il tempo
riga dopo riga dell'agenda.
Sette tipi di manager: Il Manager-cresciuto-in-casa
Di tutt'altra pasta sono fatti i Manager-cresciuti-in-casa. Mentre i Manager-come-si-deve sono entrati in azienda già con ruoli importanti, già inquadrati come dirigenti, o comunque proiettati verso luminosa carriera, i Manager-cresciuti-in-casa sono cresciuti passo passo, attraverso carriere lente ed accidentate, talvolta forniti da un buon titolo di studio, talvolta forti esclusivamente di un pratico 'saper fare' – ma sempre cresciuti partendo da posizioni impiegatizie e magari anche operaie. Hanno coperto il ruolo di quadri. Conoscono l'azienda a menadito, sia negli aspetti formali che informali. La loro competenza si fonda sull'esperienza. Conoscono bene le persone –interne ed esterne all'azienda– con le quali hanno a che fare. Considerano fondamentale la qualità dei rapporti personali. Conoscono bene materie prime e tecnologie e prodotti e cicli di produzione. Non sono necessariamente dotati di titoli di studio. Sono legati affettivamente all'azienda e al loro lavoro.
Triste realtà vuole che dietro ogni visibilissimo Manager-come-si-deve, operante sulla scena con tutta la sua arroganza ed ignoranza, agiscano, in ruoli più o meno subalterni, uno o più quasi invisibili Manager-cresciuti-in-casa. Il Manager-come-si-deve si prende onori e remunerazioni, ma non le corrispettive responsabilità, mentre il Manager-cresciuto-in-casa, grigio e concreto e fattivo, necessario e costruttivo, lavora e decide, ma resta nell'ombra. E' lasciato ad operare dietro le quinte.
L'affermazione e l'ascesa di Manager-cresciuti-in-casa ha normalmente luogo solo nelle aziende che premiano un lungo legame di fedeltà personale, aziende con una solida cultura aziendale, aziende quasi sempre dove la proprietà che mantiene saldamente la guida dell'impresa.
Legato ad un sincero interesse per quello che fa, mosso dal buon senso, orientato a considerare la produzione un dovere morale, , guidato da una propria etica, disinteressato ai riti che consolidano l'appartenenza alla casta dei Manager-come-si-deve, il Manager-cresciuto-in-casa non è controllabile, non è ricattabile, non può essere comprato. Non si assoggetta facilmente all'imperscrutabile comando esterno della finanza e degli stakeholder interessati esclusivamente ad estrarre ricchezza dall'economia produttiva, per destinarla altrove.
Triste realtà vuole che dietro ogni visibilissimo Manager-come-si-deve, operante sulla scena con tutta la sua arroganza ed ignoranza, agiscano, in ruoli più o meno subalterni, uno o più quasi invisibili Manager-cresciuti-in-casa. Il Manager-come-si-deve si prende onori e remunerazioni, ma non le corrispettive responsabilità, mentre il Manager-cresciuto-in-casa, grigio e concreto e fattivo, necessario e costruttivo, lavora e decide, ma resta nell'ombra. E' lasciato ad operare dietro le quinte.
L'affermazione e l'ascesa di Manager-cresciuti-in-casa ha normalmente luogo solo nelle aziende che premiano un lungo legame di fedeltà personale, aziende con una solida cultura aziendale, aziende quasi sempre dove la proprietà che mantiene saldamente la guida dell'impresa.
Legato ad un sincero interesse per quello che fa, mosso dal buon senso, orientato a considerare la produzione un dovere morale, , guidato da una propria etica, disinteressato ai riti che consolidano l'appartenenza alla casta dei Manager-come-si-deve, il Manager-cresciuto-in-casa non è controllabile, non è ricattabile, non può essere comprato. Non si assoggetta facilmente all'imperscrutabile comando esterno della finanza e degli stakeholder interessati esclusivamente ad estrarre ricchezza dall'economia produttiva, per destinarla altrove.
Sette tipi di manager: Il Cinico Umanista
Dopo ottimi studi scientifici, o più spesso umanistici, rinunciando a carriere universitarie o amministrative o politiche, ha scelto di fare il manager per caso, o per sfida, o magari inizialmente, per consapevole impegno sociale. Spesso inizia lavorando nell'area del Personale. Ma poi l'indubbia intelligenza apre la strada verso ogni ambito del management e verso ruoli di vertice.
E' una categoria rara e per questo pregiata. Se ci interessa davvero che l'impresa italiana ritrovi una sua strada, figure come queste servono come il pane. Potrebbero costituire la guida. Potrebbero fare scuola. Potrebbero costituire una punta di diamante, un'avanguardia. A chi se non a persone dotate di fini strumenti culturali e di solida formazione potrebbe, o dovrebbe essere affidato il compito di portare alla luce uno stile di direzione attento alla storia e alla cultura e all'economia reale del nostro paese.
Eppure, proprio da questo manager Umanisti ci giunge la maggiore delusione. Dove è maggiore l'aspettativa, dove maggiori sono le potenzialità, maggiore è il dispetto per la scarsità dell'apporto, per il prevalere del privatissimo e personale comodo.
In un mondo popolato da Manager-come-si-deve, dove gli scostamenti dalla norma si riassumono in Miracolati e Complici, il Manager Umanista ha vita facile. Brilla senza fatica. Le incontestabili doti gli permettono di sbrigare il lavoro in poco tempo. La maggiore acutezza dello sguardo – nel capire le persone, nel pensare al futuro, appare evidente.
Ma a partire da questi dati di realtà il manager Umanista se ne lava le mani. Invece di bonificare l'ambiente, invece di favorire l'ingresso di giovani di solida e aperta formazione– ama circondarsi di purissimi manager-come-si-deve. Lo fa col sorriso sardonico di chi ha capito come vanno le cose, e sceglie di approfittarne. Sceglie la via del cinismo.
Potrebbe, dovrebbe essere un maestro di etica, e ostenta invece sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali e le convenzioni. Critica a parole i manager-come si-deve, intimamente li disprezza, irride il loro accanito carrierismo, il loro stile convenzionale, la loro piattezza culturale, la povertà del loro lessico ma si mostra nella sostanza indulgente. Fa comodo e fa piacere avere sottomano un oggetto di scherno ed una conferma della propria superiorità.
Piace al Cinico Umanista brillare nel deserto. Piace al Cinico Umanista guardare innanzitutto a di sé stesso. Così la propria persona, le proprie qualità intellettuali, finiscono per essere il centro preminente del proprio interesse. Considerandosi unico e irripetibile, il Manager Umanista dà ad intendere di non poter avere eredi. Dopo la sua dipartita, ci dice tutto andrà peggio, mi rimpiangerete. E per confermare questa tesi –"Après moi le déluge"–, più o meno consapevolmente si bea nel pronosticare un futuro fosco.
Se il Manager-come-si-deve si vanta di non aver tempo per leggere, il Cinico Umanista ci dà ad intendere di leggere molto. E comunque scrive. Scrive parlando di sé, celebrando la propria diversità. Ma senza indignarsi né proporre qualcosa di nuovo. Offre semmai lezioni ai Manager-come-si-deve, fingendo di mostrare loro come farsi una cultura, ma in fondo giustificandone la pochezza.
E' una categoria rara e per questo pregiata. Se ci interessa davvero che l'impresa italiana ritrovi una sua strada, figure come queste servono come il pane. Potrebbero costituire la guida. Potrebbero fare scuola. Potrebbero costituire una punta di diamante, un'avanguardia. A chi se non a persone dotate di fini strumenti culturali e di solida formazione potrebbe, o dovrebbe essere affidato il compito di portare alla luce uno stile di direzione attento alla storia e alla cultura e all'economia reale del nostro paese.
Eppure, proprio da questo manager Umanisti ci giunge la maggiore delusione. Dove è maggiore l'aspettativa, dove maggiori sono le potenzialità, maggiore è il dispetto per la scarsità dell'apporto, per il prevalere del privatissimo e personale comodo.
In un mondo popolato da Manager-come-si-deve, dove gli scostamenti dalla norma si riassumono in Miracolati e Complici, il Manager Umanista ha vita facile. Brilla senza fatica. Le incontestabili doti gli permettono di sbrigare il lavoro in poco tempo. La maggiore acutezza dello sguardo – nel capire le persone, nel pensare al futuro, appare evidente.
Ma a partire da questi dati di realtà il manager Umanista se ne lava le mani. Invece di bonificare l'ambiente, invece di favorire l'ingresso di giovani di solida e aperta formazione– ama circondarsi di purissimi manager-come-si-deve. Lo fa col sorriso sardonico di chi ha capito come vanno le cose, e sceglie di approfittarne. Sceglie la via del cinismo.
Potrebbe, dovrebbe essere un maestro di etica, e ostenta invece sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali e le convenzioni. Critica a parole i manager-come si-deve, intimamente li disprezza, irride il loro accanito carrierismo, il loro stile convenzionale, la loro piattezza culturale, la povertà del loro lessico ma si mostra nella sostanza indulgente. Fa comodo e fa piacere avere sottomano un oggetto di scherno ed una conferma della propria superiorità.
Piace al Cinico Umanista brillare nel deserto. Piace al Cinico Umanista guardare innanzitutto a di sé stesso. Così la propria persona, le proprie qualità intellettuali, finiscono per essere il centro preminente del proprio interesse. Considerandosi unico e irripetibile, il Manager Umanista dà ad intendere di non poter avere eredi. Dopo la sua dipartita, ci dice tutto andrà peggio, mi rimpiangerete. E per confermare questa tesi –"Après moi le déluge"–, più o meno consapevolmente si bea nel pronosticare un futuro fosco.
Se il Manager-come-si-deve si vanta di non aver tempo per leggere, il Cinico Umanista ci dà ad intendere di leggere molto. E comunque scrive. Scrive parlando di sé, celebrando la propria diversità. Ma senza indignarsi né proporre qualcosa di nuovo. Offre semmai lezioni ai Manager-come-si-deve, fingendo di mostrare loro come farsi una cultura, ma in fondo giustificandone la pochezza.
Sette tipi di manager: Il lobbista-che-gioca-in-proprio
La sua carriera è anomala. Spesso è un ex Cocco-dell’analista, talvolta un Miracolato o un Complice. Più raramente un ex Manager-come-si deve. Non di rado proviene dalla consulenza, o professioni liberali, avvocato o commercialista; o da una Banca o dalla politica.
Non possiede quasi mai le skill che sulla carta –e secondo l’opinione di professori universitari, consulenti e coach– dovrebbero essere indispensabili al manager, pena l’incapacità di guidare un’azienda.
E questa circostanza dovrebbe farci riflettere: servono davvero al manager queste competenze ‘normali’? Il fatto che il Manager-come-si-deve le possegga, è prova della sua forza, o della sua debolezza? Non contano forse di più altre doti?
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio sa che in realtà, di quelle competenze ‘normali’ se ne può fare benissimo a meno.
E’ indispensabile, invece, il pelo sullo stomaco. E’ importante non fermarsi di fronte a nulla, non temere nessuno. In questo il Lobbista-che-gioca-in-proprio è maestro. Lo stesso Complice non può competere con lui. Non c’è gara.
Il Lobbista-che-gioca-in proprio trae il proprio potere dall’appartenere a un sistema di influenze incrociate, a una rete di interessi che si sostengono a vicenda – interessi che ovviamente nulla hanno a che fare con l’interesse dell’azienda nella quale momentaneamente il manager si trova a lavorare: anche sotto questo punto di vista, il Complice ha molto da imparare.
Nel Lobbista-che-gioca-in-proprio la generale tendenza di ogni manager –‘fai innanzitutto il tuo interesse personale’– raggiunge le massime vette. Lui gioca per sé, la sua è una partita personale. Sfortunata l’azienda che si trova a subire in sorte il transito di questi personaggi.
Amara la situazione di una azienda che finisce nelle mani del Lobbista-che-gioca-in proprio. L’azienda, nelle sue mani, non è che una pedina o una fiche, un asset sempre sacrificabile, sempre subordinato a diversi –e personali– interessi. Mentre gli interessi di un qualsiasi altro stakeholder, ovviamente, restano in secondo piano.
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio è dotato di un personale potere che rende forte nei confronti del mondo della finanza: è in grado di contrattare e di difendersi, perché è in grado di mettere in gioco altri poteri: la politica, le istituzioni. Il Lobbista-che-gioca-in-proprio decide da solo i propri compensi, ivi compreso, naturalmente, il ‘paracadute’: il compenso che spetta comunque al manager se, anche per propri errori, deve lasciare la posizione.
Camaleontico e potente, personaggio temuto e riverito, può spostare equilibri consolidati. Facile per lui giocare senza remore la carta che è già nelle mani di ogni Cocco-dell’analista, ma che il Cocco-dell’analista -privo dell’ambizione e dell’istinto del killer che contraddistingue il Lobbista-che gioca-in-proprio- è nella pratica restio a giocare: comprare, con il finanziamento del mercato finanziario, la stessa azienda per la quale lavora.
Non possiede quasi mai le skill che sulla carta –e secondo l’opinione di professori universitari, consulenti e coach– dovrebbero essere indispensabili al manager, pena l’incapacità di guidare un’azienda.
E questa circostanza dovrebbe farci riflettere: servono davvero al manager queste competenze ‘normali’? Il fatto che il Manager-come-si-deve le possegga, è prova della sua forza, o della sua debolezza? Non contano forse di più altre doti?
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio sa che in realtà, di quelle competenze ‘normali’ se ne può fare benissimo a meno.
E’ indispensabile, invece, il pelo sullo stomaco. E’ importante non fermarsi di fronte a nulla, non temere nessuno. In questo il Lobbista-che-gioca-in-proprio è maestro. Lo stesso Complice non può competere con lui. Non c’è gara.
Il Lobbista-che-gioca-in proprio trae il proprio potere dall’appartenere a un sistema di influenze incrociate, a una rete di interessi che si sostengono a vicenda – interessi che ovviamente nulla hanno a che fare con l’interesse dell’azienda nella quale momentaneamente il manager si trova a lavorare: anche sotto questo punto di vista, il Complice ha molto da imparare.
Nel Lobbista-che-gioca-in-proprio la generale tendenza di ogni manager –‘fai innanzitutto il tuo interesse personale’– raggiunge le massime vette. Lui gioca per sé, la sua è una partita personale. Sfortunata l’azienda che si trova a subire in sorte il transito di questi personaggi.
Amara la situazione di una azienda che finisce nelle mani del Lobbista-che-gioca-in proprio. L’azienda, nelle sue mani, non è che una pedina o una fiche, un asset sempre sacrificabile, sempre subordinato a diversi –e personali– interessi. Mentre gli interessi di un qualsiasi altro stakeholder, ovviamente, restano in secondo piano.
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio è dotato di un personale potere che rende forte nei confronti del mondo della finanza: è in grado di contrattare e di difendersi, perché è in grado di mettere in gioco altri poteri: la politica, le istituzioni. Il Lobbista-che-gioca-in-proprio decide da solo i propri compensi, ivi compreso, naturalmente, il ‘paracadute’: il compenso che spetta comunque al manager se, anche per propri errori, deve lasciare la posizione.
Camaleontico e potente, personaggio temuto e riverito, può spostare equilibri consolidati. Facile per lui giocare senza remore la carta che è già nelle mani di ogni Cocco-dell’analista, ma che il Cocco-dell’analista -privo dell’ambizione e dell’istinto del killer che contraddistingue il Lobbista-che gioca-in-proprio- è nella pratica restio a giocare: comprare, con il finanziamento del mercato finanziario, la stessa azienda per la quale lavora.
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